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Moody's promuove l'Italia, ma ora serve crescita

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La promozione di Moody’s è una buona notizia, certamente storica, ma non può diventare un alibi: deve essere letta come uno stimolo a consolidare la crescita reale e non solo a compiacersi dei giudizi finanziari.

Editoriali 24_11_2025

La promozione del rating dell’Italia da parte dell’agenzia Moody’s, che ha alzato il giudizio sul debito sovrano da Baa3 a Baa2 con outlook stabile, rappresenta una notizia che non si registrava da ventitré anni e che segna un passaggio simbolico e politico di grande rilievo. L’agenzia americana, storicamente la più severa nei confronti del nostro Paese, ha riconosciuto quella che definisce una traiettoria coerente di stabilità politica, disciplina di bilancio e attuazione delle riforme, con particolare riferimento all’utilizzo del Pnrr e alla prospettiva di investimenti pubblici sostenuti nel triennio 2026-2028, superiori al 3,5% del Pil.

Moody’s vede un contesto in cui l’Italia è riuscita a contenere la spesa corrente, aumentare le entrate e creare così lo spazio fiscale necessario per interventi strutturali, confermando al contempo la solidità della domanda di titoli di Stato, sostenuta da famiglie, imprese e investitori esteri che hanno aumentato la loro esposizione mentre Bce e Bankitalia riducevano gradualmente il portafoglio di BTp.

La premier Giorgia Meloni ha parlato di un riconoscimento storico che premia le scelte coerenti e responsabili del governo, mentre il ministro dell’Economia Giorgetti ha sottolineato come si tratti della prima promozione di Moody’s dopo più di due decenni e come essa rappresenti un segnale di fiducia nei confronti dell’intero sistema Paese. L’upgrade arriva in un anno caratterizzato da una serie di miglioramenti nei rating da parte di S&P, Fitch, Dbrs, Kbra e Scope, e consente all’Italia di uscire dal ruolo scomodo di maglia nera nella scala Moody’s, dove ancora occupava l’ultimo gradino dell’investment grade.

Alla base della decisione c’è anche il ritorno a un avanzo primario significativo, salito allo 0,9% del Pil nel 2025 e previsto in crescita fino all’1,9% nel 2028, insieme a un deficit che, pur in un contesto internazionale complesso, dovrebbe rimanere sotto il 3% già nel 2025 per scendere ulteriormente negli anni successivi. L’agenzia ipotizza una discesa del rapporto debito/Pil a partire dal 2027, dopo un picco al 137,4%, cifra comunque legata alla cosiddetta “gobba” dei crediti d’imposta accumulati negli anni del Superbonus e ora in progressivo riassorbimento.

Tuttavia, al di là della notizia in sé, che certamente rafforza la credibilità finanziaria del Paese, è inevitabile riflettere sulle implicazioni politiche e sul quadro economico reale in cui questo miglioramento si colloca. La prima considerazione riguarda i cosiddetti “gufi”, cioè coloro che, dopo la vittoria elettorale della coalizione guidata da Giorgia Meloni tre anni fa, avevano pronosticato catastrofi sui mercati, un’impennata dello spread, un crollo di fiducia internazionale e una gestione economica tale da mettere a rischio la stabilità dei conti.

Il filotto di sette promozioni ricevute nel corso dell’ultimo anno, culminato proprio nel giudizio di Moody’s, dimostra che quei timori non si sono materializzati e che, almeno sul piano della percezione finanziaria esterna, l’Italia non solo non è diventata un Paese inaffidabile ma ha anzi recuperato terreno rispetto agli standard europei, mostrando una solidità che molti osservatori ritenevano irraggiungibile. Questo non significa che ogni scelta del governo sia stata perfetta, ma implica che il giudizio catastrofista non ha trovato riscontro nei fatti e che la stabilità politica, in un contesto globale segnato da volatilità e conflitti, si è rivelata un fattore determinante.

La seconda considerazione riguarda invece un aspetto più politico e quasi paradossale: Giorgia Meloni, quando sedeva all’opposizione, non mancava di criticare duramente le agenzie di rating, accusandole di rappresentare interessi finanziari distanti dai bisogni dei cittadini e di esercitare un’influenza eccessiva sui governi nazionali. Ora, di fronte a una promozione tanto simbolica quanto inattesa, la premier sottolinea l’affidabilità del giudizio e ne rivendica il valore come conferma della correttezza delle scelte economiche compiute.

È evidente che la dinamica politica porta spesso a posizioni diverse a seconda del ruolo ricoperto, ma rimane interessante osservare come la stessa Meloni, oggi alla guida dell’esecutivo, consideri rilevante l’opinione di quegli organismi che un tempo contestava. Anche questo è un segnale della complessità dell’equilibrio tra sovranità politica e valutazioni dei mercati, un rapporto in cui nessun governo, di nessun Paese sviluppato, può davvero permettersi una rottura totale.

La terza considerazione è probabilmente la più importante dal punto di vista economico di lungo periodo: al di là dei parametri finanziari, che appaiono oggi più rassicuranti, l’Italia continua a scontare una crescita debole, spesso inferiore a quella dei principali partner europei, con una produttività stagnante e un mercato del lavoro che, pur avendo recuperato occupati negli ultimi anni, rimane segnato da salari bassi, contratti discontinui e una partecipazione femminile e giovanile ancora molto lontana dagli standard europei. Anche il debito pubblico, sebbene si avvii a una riduzione prevista da Moody’s, rimane su livelli altissimi e richiede uno sforzo costante per evitare nuove spinte verso l’alto.

La promozione dell’agenzia non deve quindi illudere che tutti i problemi siano risolti: essa riconosce una gestione prudente e un percorso credibile di riforme, ma segnala anche che la sostenibilità del debito dipenderà da una crescita robusta e continuativa, condizione che l’Italia non è ancora riuscita a raggiungere.

Per rendere davvero strutturale il miglioramento occorre investire in produttività, innovazione, capitale umano, contrasto alla povertà e sostegno alle imprese che esportano e competono. Gli stessi investimenti pubblici annunciati possono essere un volano, ma solo se accompagnati da un tessuto produttivo dinamico e da un mercato del lavoro capace di valorizzare competenze e stabilità. La promozione di Moody’s è dunque una buona notizia, certamente storica, ma non può diventare un alibi: deve essere letta come uno stimolo a consolidare la crescita reale e non solo a compiacersi dei giudizi finanziari.