Gli obiettivi della Cop30: la libertà si scioglie più velocemente dei ghiacciai
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Alla trentesima conferenza sul clima, la Cop30, tenutasi a Belém, in Brasile, si riscontra un certo nervosismo. Molto più che l'umanità è minacciata la nostra libertà. Nella Dichiarazione, infatti, molta è l'enfasi alla lotta alla "disinformazione climatica". Un concetto che pone le basi di sempre nuove forme di censura del dissenso.
- L'Occidente climatista superato dalla storia di Stefano Magni
La "Dichiarazione sull'integrità delle informazioni sui cambiamenti climatici" firmata alla COP30 di Belém sembra qualcosa che George Orwell avrebbe respinto perché troppo diretta.
«Riconoscendo che l'urgenza della crisi climatica richiede non solo un'azione decisa da parte degli Stati, ma anche un ampio coinvolgimento di tutti i segmenti della società...». Il documento si apre con questa prevedibile invocazione di "urgenza", quella stanca formula magica che vorrebbe sospendere la ragione e giustificare qualsiasi cosa accada. Urgenza e crisi climatica che non trovano riscontro nelle serie storiche degli indicatori climatici.
Gli autori affermano di essere: «Preoccupati dal crescente impatto della disinformazione, della cattiva informazione, del negazionismo, degli attacchi deliberati a giornalisti ambientalisti, difensori dei diritti, scienziati, ricercatori e altre voci pubbliche...» Traduzione: chiunque ponga domande imbarazzanti sui modelli climatici, sulle incertezze dei dati o sui fallimenti delle politiche è ora colpevole di "negazionismo" – un termine preso in prestito direttamente dal lessico dell'eresia religiosa.
Se si trattasse solo di un'altra bolla diplomatica, sarebbe ridicola, ma questa Dichiarazione va oltre. Invita apertamente i governi a: «Creare e attuare politiche e quadri giuridici... che promuovano l'integrità delle informazioni sui cambiamenti climatici e rispettino, proteggano e promuovano i diritti umani, incluso il diritto alla libertà di espressione...» Una contraddizione sconvolgente: come si fa a "promuovere la libertà di espressione" mentre si elaborano leggi per decidere quali espressioni siano accettabili?
Naturalmente ci sono anche capitali in gioco e la Dichiarazione propone ai finanziatori: «Donare al Fondo Globale per l'Integrità dell'Informazione sui Cambiamenti Climatici, amministrato dall'UNESCO per conto dell'Iniziativa». La stessa UNESCO che ha trascorso decenni a produrre propaganda ottimistica sull'"educazione allo sviluppo sostenibile" ora siederà al vertice di un sistema informativo globale, decidendo quali fatti siano adatti al consumo pubblico. Non si potrebbe inventare una parodia migliore dell'eccesso burocratico.
Come sempre, ogni tirannia afferma di agire in difesa della "verità". L'Inquisizione bruciava gli eretici per la purezza della fede. L'Unione Sovietica incarcerava scienziati per aver messo in discussione il lysenkoismo, tutto in nome della protezione dell'"integrità scientifica". L'attuale clero climatico non fa eccezione.
L'intero sforzo trasuda insicurezza. Se la scienza fosse così "consolidata" come si dice, perché questa ossessione nel mettere a tacere i critici? Perché le infinite campagne per "accrescere la fiducia del pubblico" e "rafforzare la fiducia nella scienza del clima"? La vera scienza accoglie lo scetticismo; la propaganda esige la fede e questa è propaganda.
La ripetuta invocazione di "fiducia" e "integrità" è il linguaggio del controllo, non dell'indagine. La vera fiducia si guadagna attraverso l'apertura, il dibattito e le prove, non si impone per decreto. Non c'è bisogno di un "ecosistema informativo" gestito dall'UNESCO per dire alla gente che l'acqua bolle a 100 °C. La censura è necessaria solo quando i "fatti" sono troppo fragili per resistere all'esame.
Forse l'aspetto più preoccupante di tutta questa farsa è che la Dichiarazione invita i governi a: «Promuovere campagne sul cambiamento climatico e sostenere iniziative che promuovano l'alfabetizzazione e il diritto del pubblico ad accedere a informazioni affidabili sull'argomento». In parole povere, questo significa: finanziare la propaganda che dice ai cittadini cosa pensare, etichettando le opinioni opposte come "inaffidabili".
L'ironia, ovviamente, è che la cosiddetta "disinformazione climatica" che cercano disperatamente di sradicare, spesso si rivela una verità scomoda. Un tempo era "disinformazione" mettere in discussione il grafico a "mazza da hockey", finché non è crollato sotto esame. Era "negazionismo" sottolineare che i modelli climatici hanno costantemente sovrastimato il riscaldamento globale. Era "pericoloso" notare che gli obblighi sulle energie rinnovabili fanno aumentare i costi energetici e destabilizzano le reti elettriche, finché i blackout non hanno costretto persino i governi favorevoli a riconsiderare la questione.
Ora, invece di correggere i propri errori, l'establishment climatico sta raddoppiando gli sforzi, passando dalla persuasione alla coercizione. Il loro messaggio è semplice: credere o tacere. Il vero pericolo qui non è per il clima, ma per la libertà stessa. Quando governi, media e organismi sovranazionali cospirano per determinare quali opinioni possano essere espresse, la scienza cessa di esistere. Al suo posto sorge un sacerdozio burocratico, fluente nel linguaggio di "sostenibilità", "integrità" e "politiche basate sull'evidenza", ma completamente cieco al proprio autoritarismo. Questa non è scienza. È sorveglianza con un alone morale.

