L’urgenza di un ritorno ai classici
Siamo in un’epoca in cui il libro non è più segno di cultura, ma oggetto di consumo di massa, secondo quanto profetizzava Leopardi due secoli fa. È allora bene riscoprire i libri senza tempo, che sanno esprimere quello che anche noi viviamo e proviamo. Di qui nasce “Ritorno ai classici” (Ares), una conversazione tra due poeti che si dispiega lungo tutto l'arco della storia letteraria.
«Non è mai troppo tardi per lasciarsi sorprendere da un Classico. Per riscoprirlo, ma anche per leggerlo la prima volta… quante volte abbiamo paura di confidare una lacuna nella nostra biblioteca dell’anima» (Alessandro Rivali).
I classici sono nostri amici e contemporanei, perché sanno esprimere quello che anche noi viviamo e proviamo, le nostre stesse ansie e le nostre aspirazioni, l’ardore e la paura del vivere, l’horror vacui e il desiderio dell’assoluto. Ci aiutano a capire cosa occorra «per essere davvero umani, per essere qualcosa di più grande di quello che in effetti siamo, qualcosa di meglio» (Raymond Carver).
«I classici non salveranno il mondo, ma possono migliorarci, predisponendoci magari all’ascolto dell’altro. […] Sono flaconi di bellezza che forse possono attenuare il male» (A. Rivali).
Proprio così, la bellezza rende migliore l’uomo, lo porta a desiderare di cambiare e di essere migliore di quanto sia, come quando ci innamoriamo davvero di una persona. Vorremmo essere all’altezza di questa persona.
Nel bellissimo film Le vite degli altri, l’agente HGW XX/7 che spia l’artista e drammaturgo Dreyman incontra una diversità e una bellezza umane nella figura dell’artista. Quando Dreyman suona Die Sonate vom guten Menschen, “La suonata degli uomini buoni”, l’agente afferma: «Come fa chi ha ascoltato questa musica a rimanere cattivo?».
Per questo si sente la necessità di un ritorno ai classici, in un’epoca in cui il libro non è più segno di cultura, ma oggetto di consumo di massa, in cui si è verificato quanto Leopardi profetizzava nello Zibaldone due secoli fa quando affermava che nel futuro ci sarebbero state una letteratura colta per pochi e un’altra produzione di consumo per tutti, che non si può considerare arte.
Da qui nasce Ritorno ai classici (Edizioni Ares), una conversazione tra due poeti, amici e compagni d’avventura nel magnifico mondo della scrittura e, in particolare, della scrittura poetica. Mezzo secolo separa Giampiero Pontiggia (1927), in arte Neri, fratello dello scrittore Giuseppe Pontiggia, l’autore del fortunatissimo Nati due volte, da Alessandro Rivali, classe 1977, autore delle raccolte di poesie La riviera del sangue (2005) e La caduta di Bisanzio (2010) oltre che del saggio Ho cercato di scrivere Paradiso (edito da Mondadori nel 2018).
I due si conobbero tanti anni fa, dopo che Neri tenne una reading in cui lesse alcuni suoi inediti. Da allora nacque un’amicizia fondata sul comune interesse per la letteratura e cementata da incontri sempre più frequenti e costanti.
Nel saggio Giampiero Neri. Un maestro in ombra (Jaca Book), Alessandro Rivali raccontava le vicende della vita del poeta, ma ricostruiva anche la ricerca drammatica, fastidiosa e dolorosa della verità attraverso le storie di violenza, di dolore, di morte che avevano caratterizzato la sua vita. Neri arrivava a riconoscere la necessità del male, che permette il riconoscimento e l’adesione al bene. Già allora Neri apriva una finestra sul suo lavoro di poeta, sul suo cantiere, sui suoi inizi, sui rapporti con gli altri poeti; mostrava il suo tavolo di lavoro e una vasta biblioteca che poneva in primo piano autori come Dino Campana, Rimbaud, Pasternak, Grossman, Šolochov, Fenoglio (soprattutto Il partigiano Johnny).
Il dialogo odierno tra Rivali e Neri si dispiega lungo tutto l’arco della storia letteraria: dai poemi omerici alla Bibbia, dai classici latini a quelli greci, dalle corone fiorentine ai giganti del Cinquecento italiano (Ariosto, Tasso, Machiavelli), dal genio di Shakespeare agli illuministi italiani Parini e Alfieri, da Manzoni e Leopardi fino a Scott Fitzgerald, Gadda, Sereni e tanti altri, passando attraverso i giganti russi (Tolstoj, Pasternak, Ŝolochov, ecc.).
Neri ricostruisce un canone della modernità sottolineando il proprio gusto e il criterio predominante nella valutazione del valore della scrittura: la ricerca della verità nei versi del poeta. «Si scrive sempre per qualcosa che manca», racconta Neri. I classici, in questo senso, «ci aiutano ad essere un po’ meno soli, facendoci respirare a pieni polmoni» (Rivali). Nei classici «è scolpita una sorta di promessa» (Rivali).
Le grandi opere del passato documentano che il cuore dell’uomo è immutabile. Hanno, però, in sé anche un valore profetico. I grandi geni sanno interpretare la propria epoca e sanno capirla, perché comprendono meglio degli altri le chiavi di accesso alla cultura coeva. Per questo, quasi sempre, non sono compresi dai lettori coevi, ma vengono apprezzati dai posteri.
Si ritorna sempre ad Omero, afferma Neri, poiché la sua poesia nutre, a dimostrazione del fatto che i classici non hanno tempo e possono essere letti sempre. L’Iliade è la «storia di tutti», mentre l’Odissea è la «storia di un uomo». Per questo Neri predilige la prima e ammira l’umanità di Ettore, «la figura più vicina al nostro modo di sentire», un grande che sta dalla parte dei vinti. Ma proprio
nella sconfitta […] l’uomo abbandona le sue difese e si presenta come è realmente, e quando è nudo è allora che è grande, perché è nato nudo. […] La sconfitta ci conduce alla grandezza, all’uomo finalmente simile a Dio, che è morto sulla croce.
Per questo Cesare è grande nella sconfitta, quando esclama «Tu quoque, fili mi», una volta pugnalato dal figlio adottivo Bruto e dagli altri congiurati.
La vena critica di Neri si apre a giudizi che riguardano tutta la storia letteraria universale. Dante ci documenta che l’uomo non è nato per essere come i bruti, ma per «seguir virtute e canoscenza», consapevole di essere homo viator (viandante) verso la vera patria. Machiavelli «è un genio romano, che conosce gli uomini veri, non quelli di plastica. È un autore grande e per questo è bistrattato e in fondo mal conosciuto». Per Neri addirittura è l’autore «più grande dopo Dante, forse più grande di Manzoni». I promessi sposi sono «il grande poema della liberazione», che si sarebbe potuto chiamare anche Risurrezione, titolo che non avrebbe circoscritto l’ambito, ma mostrato come il romanzo parla di ciascuno di noi. Un romanzo che conforta e nutre, proprio per l’idea di Provvidenza che alimenta la storia, raramente presente nella nostra letteratura.
Il poeta Ezra Pound è uno degli autori preferiti da Neri. In «Patria mia» si chiede come sarebbe l’America «se i classici circolassero di più».
La vitalità di Giampiero Neri non è in alcun modo spenta neanche a novantatré anni, un’età che non gli dispiace per nulla. Confessa:
Non sono mai stato per la giovinezza, o per quelli che vengono considerati i suoi tratti distintivi, come la velocità. […] Credo che una vita lunga sia l’aspettativa di ognuno di noi.