L'Irlanda respinge l'attacco alla vita
Dai tre giudici dell’Alta Corte irlandese, chiamati a esprimersi sul caso della signora Fleming, è arrivato un fermo no al suidicio assistito legale. Ma la Fleming ha presentato ricorso e l'Irlanda si trova alle prese con un nuovo attacco alla vita.
Suicidio assistito legale? No, grazie. E’ questo l’orientamento manifestato dai tre giudici dell’Alta Corte irlandese, chiamati a esprimersi sul caso della signora Marie Fleming, costretta alla seggiola a rotelle dalla sclerosi multipla, diagnosticatale nel 1986. Da allora, il progressivo peggioramento della malattia ha fatto sì che oggi la donna si trovi in una condizione di grave disabilità, afflitta da forti dolori e difficoltà a deglutire. Una situazione che la signora Fleming non sopporta e che l’ha spinta a ricorrere contro la legge che in Irlanda punisce coloro che collaborano al suicidio di una persona, per permettere al suo compagno, Tom Curran, di aiutarla a morire.
Il signor Curran è, da febbraio 2011, il punto di riferimento europeo per la nota associazione Exit International, capeggiata dal cosiddetto “Dottor morte australiano”, Philip Nitschke, e che fa dell’impegno a favore di eutanasia e suicidio assistito una missione a livello planetario.
Riguardo a Curran, nella sua breve scheda di presentazione sul sito di Exit, si fa riferimento a una «ragione molto personale» che ispira il suo attivismo. Una ragione per la quale si dice pronto ad andare in carcere.
Già nel 2010, in un’intervista all’Irish Mail, l’uomo si era detto disposto a perdere la propria libertà pur di aiutare Marie a morire. Una determinazione espressa anche adesso, durante il programma “Momenti di verità”, mandato in onda dall’emittente televisiva pubblica RTE.
Una ferma volontà che si scontra dunque con la sentenza della Corte, i cui contenuti sono trapelati su molti organi di informazione d’oltremanica.
Secondo i giudici, l’impossibilità di uccidersi senza che chi collabora al suicidio venga incriminato non costituisce una violazione dell’autonomia personale e dell’uguaglianza dei diritti. Al contrario, sempre secondo la Corte, è proprio il bando di ogni forma di suicidio assistito ad essere una forma di tutela per le persone più vulnerabili: anche immaginando ogni possibile cautela e garanzia, con rigorosi criteri di accesso al suicidio assistito, un rischio reale sarebbe quello che persone appartenenti a categorie deboli (anziani, disabili, poveri, soli), una volta legalizzatolo, si possano sentire un peso per la società e chiedere dunque di morire.
La Corte ha inoltre affermato che spetta al Pubblico ministero il compito di scegliere caso per caso se formulare un’accusa contro chi collabora concretamente al suicidio di una persona, ma non quello di emanare delle linee guida che possano fungere da criteri generali da applicare in ogni circostanza.
Nessuno spiraglio, a quanto pare: ogni diluizione del bando totale del suicidio assistito, ha affermato il giudice presidente della Corte Nicholas Kearns, sarebbe l’apertura del vaso di Pandora.
Il caso, comunque, non è chiuso: Marie Fleming ha già presentato ricorso alla Corte Suprema. L’Irlanda, quindi, si trova tra le mani l’ennesima patata bollente relativamente alla tutela della vita umana. Se la vicenda Fleming riguarda il tramonto dell’esistenza umana, da un punto di vista della vita nascente l’Irlanda è sotto assedio, sia interno che esterno, a causa della legge molto restrittiva che regolamenta l’interruzione di gravidanza.
La vicenda di Savita Halappanavar, a novembre scorso, ha catalizzato l’attenzione mediatica per settimane. La trentunenne indiana sarebbe morta a causa del rifiuto dei medici di praticarle un aborto nonostante delle complicazioni durante la gestazione: il condizionale, però, è d’obbligo. Nei giorni seguenti alla notizia del decesso di Savita, di cui le associazioni abortiste erano venute a conoscenza prima che la notizia venisse resa pubblica dai media, si sono tenute manifestazioni che chiedevano la legalizzazione dell’aborto in Irlanda. Ma, proprio sulla sequenza degli eventi che hanno portato alla morte di Savita e sul modo in cui molti media li hanno raccontati, sussistono ancora molti dubbi.
Una delle reporter che più da vicino aveva seguito la vicenda, Kitty Holland, pochi giorni dopo ammise che non era così sicuro che davvero la donna indiana avesse chiesto di abortire.
Il caso Halappanavar ha scosso l’Irlanda proprio nei giorni in cui il dibattito sulla legalizzazione dell’aborto era acceso a causa dell’imminente pubblicazione di un report governativo in cui si prendevano in considerazione, proponendo delle soluzioni adeguate, le osservazioni che a livello europeo erano state fatte alla legislazione irlandese.
In particolare, fu la Corte europea dei diritti umani, nel 2010, a esprimersi sul ricorso presentato contro il governo dell’Irlanda da tre donne espatriate per abortire (il caso ABC vs. Ireland), decretando che per una delle tre sussistevano effettivamente troppi dubbi circa la possibilità o meno di abortire in base alla legge attualmente vigente in Irlanda.
Sul report si è espressa in modo molto critico la Conferenza episcopale irlandese, mettendo in evidenza come tre delle quattro proposte della commissione di esperti che ha elaborato il testo contengano espliciti riferimenti all’aborto.
Il Primo ministro Enda Kenny ha recentemente dichiarato che non è all’ordine del giorno la legalizzazione dell’aborto su richiesta, ma che si sta discutendo solo degli aspetti della legge che devono essere chiariti a tutela del personale medico che si trovi coinvolto in casi come quello di Savita.
Dichiarazioni che non tranquillizzano i prolife irlandesi: sabato, a Dublino, si è tenuta la manifestazione «Uniti per la Vita», che vuol essere un monito contro l’eventuale modifica della legge in senso permissivo. Il testo della nuova legge è atteso per Pasqua.
Si annunciano mesi caldissimi per l’Irlanda prolife, nella morsa tra aborto e suicidio assistito.