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CRISI DA CORONAVIRUS

L'imprenditoria rischia di morire sana, ma di fame

Nonostante tutto l'ottimismo che si possa avere, l'Italia si trova ora di fronte a una situazione veramente difficile, molto peggiore di quel "declino" di cui si parla da vent'anni. Il nostro è un Paese fatto di piccole e medie imprese che ora, in assenza di liquidità, rischiano di morire dopo la quarantena. Sarà difficile ripartire, se si attende troppo.

Editoriali 03_04_2020
Chiusure da coronavirus. Qualche giorno o qualche mese?

Sono un inguaribile ottimista. Lo sanno i miei amici, ma anche i miei studenti, che quando si parla di economia nazionale mi anticipano dicendo “ma intanto per te la crisi non c’è”. Non ho mai creduto al peggioramento strutturale delle condizioni di vita materiali della nostra gente, perché questa è l’economia che mi interessa, anche sulla scia del giudizio dell’allora cardinale di Bologna Giacomo Biffi che ci giudicava “un popolo di sazi e disperati”. All’allarme sul declino del paese, che da almeno vent’anni si ripropone a ogni piè sospinto smentito ogni volta da nuovi avvenimenti prodotti dalla nostra infinita creatività, non ho mai prestato fede preferendo invece la lettura di autori come Luca Ricolfi che anche nel suo ultimo La società signorile di massa ci restituisce un quadro del Paese a mio parere molto più realistico.

Eppure oggi sono preoccupato. E molto. Un Paese come il nostro, fatto di piccoli e medi comuni ma soprattutto di piccole e medie imprese, non può fermare la propria attività per molto tempo senza poi faticare veramente molto a ripartire. Fatemi subito dire che non sono allarmato dagli episodi di Palermo, con l’assalto a un supermercato e poche altre azioni dello stesso tipo, perché li ritengo provocati dalla criminalità organizzata e dunque da controbattere di conseguenza. Non a caso, per fortuna, non se ne parla più. Molto più grave è il problema di liquidità che grava sulla moltitudine di imprese di minori dimensioni, strutturalmente sottocapitalizzate. Se per avviare l’attività, pensiamo a un bar, un ristorante, uno dei tantissimi artigiani che da giorni ormai sono chiusi, hai dovuto indebitarti, oltre che impegnare parte dei risparmi, e se, per capacità e fortuna, hai realizzato utili che ti servono per pagare le tasse, per vivere e per restituire con i dovuti interessi il capitale prestato, ogni giorno di chiusura amplifica la difficoltà. Abituato a vivere di moneta circolante, la chiusura dei rubinetti ti lascia in mezzo al guado in una situazione sconosciuta e incontrollabile. Certo, questa situazione provoca le stesse conseguenze della malattia che l’ha generata: di coronavirus muoiono piccole percentuali in assoluto, ma alte tra le persone anziane e affette da altre patologie, i più deboli dunque, mentre moltissimi tra i contagiati sono asintomatici, cioè neanche se ne rendono conto. Il fatto è che nella nostra economia i deboli sono tantissimi e, non essendo questo il momento ovviamente di discutere di impresa forte o di come fare impresa, occorre che lo Stato intervenga.

Sul fronte della liquidità si sono avanzate, anche all’estero, parecchie proposte, molte credibili e realizzabili con i dovuti controlli per evitare che i “furbetti” siano superiori alla quota fisiologica, alcune già in via di sperimentazione. Qui, tuttavia, vorrei affrontare un altro versante della vicenda, ugualmente importante, quello della ripresa delle attività. Adesso che, pur privi ancora per molto tempo di un vaccino, conosciamo meglio il nemico, possediamo finalmente su scala adeguata i dispositivi anticontagio e soprattutto larghe fasce della popolazione sono sensibilizzate alla nuova situazione in essere, occorre gradualmente e responsabilmente tornare verso la ripresa dell’attività economica. Quel gradualmente e quel responsabilmente vanno certamente riempiti di contenuto e non è questo il luogo per farlo, ma ritengo giusto sostenere che siamo giunti al punto in cui è realisticamente possibile garantire alle persone, in alcune situazioni più che in altre certo, di lavorare in sicurezza e che dunque questo va fatto. Alcuni esponenti sindacali, in analogia con la vicenda di Taranto, hanno recentemente affermato che è intollerabile mettere il lavoratore di fronte all’alternativa lavoro o salute; in linea di principio siamo tutti d’accordo, ma allora come la mettiamo con dottori, infermieri, operatori socio-sanitari, forze dell’ordine, forze armate e via di questo passo.

No, non può essere questo il criterio ultimo che regola le nostre scelte. Morire sani, ma di fame, non rientra nei miei obiettivi. E neanche, posto che sia possibile, vivere di crocchette di Stato, come un animale domestico. Del resto, troppe persone mettono ogni giorno a repentaglio la propria salute, e l’altrui nel caso di soccorritori, per hobby, passioni o stili di vita assolutamente opinabili. Farlo per lavorare, con tutti gli accorgimenti e i controlli del caso e con qualcuno in più, mi sembra molto più dignitoso.  

P.S. Ma forse quest’ultima parte del ragionamento non varrebbe a fortiori anche per l’insieme delle attività ecclesiali?