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CARITA'

L'esempio di Esselunga, come servire profitto e bene comune

Esselunga, la grande catena di supermercati, diffusi soprattutto in Lombardia, dona 2,5 milioni di euro agli ospedali in prima linea nell'assistenza ai pazienti e alla ricerca medica. E' un esempio virtuoso di come la grande imprenditoria possa servire il bene comune proprio per (e non nonostante) il suo profitto

Economia 08_03_2020
Esselunga a Milano

Sul sito web di Esselunga un comunicato alla clientela dettaglia il contributo che la nota catena di supermercati, diffusa soprattutto nel Nord dell’Italia, intende offrire per fronteggiare l’emergenza coronavirus. «Per gli Ospedali e gli Istituti impegnati in prima linea nell’assistenza dei pazienti e nella ricerca scientifica», recita il comunicato, «abbiamo previsto donazioni per 2,5 milioni di euro» destinate all’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, alla Fondazione IRCCS San Matteo di Pavia, all’Ospedale Luigi Sacco di Milano, all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, all’Ospedale Guglielmo da Saliceto di Piacenza e alla Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico.

Inoltre, «per i nostri fornitori, consapevoli dell’impatto che la situazione sta avendo sul tessuto imprenditoriale del Paese, è stato potenziato l’accordo con Unicredit che agevola i pagamenti allo scopo di alleviarne la tensione finanziaria. Saranno messi a disposizione dei fornitori di Esselunga da UniCredit Factoring 530 milioni di euro di affidamenti dedicati alle anticipazioni di pagamento dei crediti commerciali». Dunque, «per tutti gli over 65 anni, da domani e fino a Pasqua, il contributo di consegna della spesa diventerà gratuito sia per l’e-commerce Esselunga a Casa sia per le consegne dai negozi all’abitazione, in tutte le zone dove Esselunga è presente con il servizio».

Ancora, «per i 5,5 milioni di possessori di Carta Fìdaty, un’iniziativa speciale per dare anche a chi aderisce al nostro programma fedeltà la possibilità di aiutare le realtà sanitarie e di ricerca sopra citate e ad altre che verranno individuate nelle prossime settimane: ogni 500 punti Fìdaty utilizzati Esselunga donerà 5 euro agli ospedali». E «per tutti i collaboratori dei negozi Esselunga, visto il lavoro eccezionale di queste settimane al servizio della clientela, sia nei negozi che nella preparazione delle spese online è stato programmato un intervento straordinario di welfare del valore di 150 euro a persona».

Restiamo a quanto annunciato. La carità non si impone per decreto e non si ottiene presentando ricetta. Le misure adottate da Esselunga hanno uno scopo primario. Proteggere l’azienda, i cui profitti potrebbero subire (come quelli di molte altre aziende italiane ora) un duro colpo inferto dall’emergenza sanitaria attuale. Un’azienda questo deve fare, al netto di qualsiasi altra considerazione possibile e lecita. Se infatti si trasformasse in un istituto di beneficienza tout court, un’azienda smetterebbe di fare ciò che fa: generare profitto fornendo merci, beni e servizi al pubblico, ovvero fornire merci, beni e servizi al pubblico generando profitto. E, generando sempre nuovo profitto, fornire altri beni al pubblico, il quale, servendosi da essa, ne incrementa i profitti in un circolo continuo di domanda e di offerta, di beni e di profitto. Del resto senza profitto un’azienda non potrebbe nemmeno permettersi quel surplus di generosità che oggi per esempio Esselunga annuncia.

Ora, il punto adesso è che, per proteggere i propri profitti, Esselunga adotta misure di carità. Ovvero il profitto consente la carità (perché permette di godere di quei margini economici oltre la sussistenza che rendono concreta la generosità) e la carità fa bene al profitto (perché lo protegge e lo incentiva). Al netto di ogni e qualunque altra considerazione lecita (ma nessuno di noi ha strumenti per giudicare l’intenzione della direzione di Esselunga, e nemmeno il diritto) questo è quanto risulta.

Di più: le misure di carità adottate anzitutto per proteggere il profitto producono, potenzialmente, un bene sociale oggettivo laddove contribuiscono a mantenere equilibrato il benessere materiale di lavoranti e clienti che invece l’emergenza sanitaria potrebbe incrinare, e persino aiutare a debellare il male che sta colpendo l’Italia attraverso lo sviluppo di una ricerca scientifica mirata, e così trasformare un gesto di carità che ha per scopo principale la protezione del profitto in un investimento sociale che rende lampante la funzione pubblica svolta dal privato.

Se il circolo virtuoso fra carità e profitto fosse poi consapevole di sé, ne risulterebbe ancora più evidente un fatto che suona scioccante solo perché lo abbiamo dimenticato. L’economia non esiste. Essa è la “norma della casa”, secondo l’etimo greco, ovvero un ordine: un ordine sociale della casa comune umana in cui si rispecchia l’ordine morale. In tempi culturalmente più chiari dei nostri la “non esistenza” morale dell’economia era più chiara.

Un bel libro dello specialista Samuel Gregg, direttore del dipartimento ricerche dell’Acton Institute, For God and Profit: How Banking and Finance Can Serve the Common Good, che gode di una premessa del cardinal George Pell, ricorda come i mercanti, sin dal secolo XI, siglassero i libri mastri della propria contabilità con il motto «Deus enim et proficuum», «Per Dio e per il profitto».