L'assassinio di Rabin pesa ancora sul futuro israelo-palestinese
Il 4 novembre del 1995 un giovane colono estremista uccise il premier israeliano, "colpevole" dell'accordo di pace del '93 con il leader palestinese Arafat. Quella tragedia del popolo ebraico, che ha mandato in fumo il processo di pace, è un avvertimento anche per l'oggi.
		                                        Ricordare l’omicidio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, avvenuto esattamente 30 anni fa, il 4 novembre del 1995, è anche un modo per comprendere la crisi attuale. Perché pur cambiando gli interpreti e, in alcuni casi, anche le sigle, in Medio Oriente le ragioni del conflitto, gli argomenti che lo infiammano, i rispettivi progetti che vorrebbero ridisegnarlo restano costanti nel tempo. E ciò che è avvenuto 30 anni fa ha inferto una ferita profonda di cui si pagano ancora le conseguenze.
Rabin fu assassinato dal 25enne Yigal Amir, esponente del gruppo estremista israeliano Eyal, un acronimo in ebraico che sta per Organizzazione ebraica nazionale. Due colpi di pistola alla schiena mentre lasciava il palco di una manifestazione in favore del processo di pace: la sua colpa era stata quella di aver firmato a Oslo l’accordo del 1993 con il leader palestinese Yasser Arafat (che valse a entrambi il premio Nobel per la pace nel 1994), che prevedeva il ritiro delle truppe israeliane da una parte di Gaza e della Cisgiordania, territori in cui si costituiva l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che da parte sua rinunciava a perseguire la distruzione di Israele. Si era ancora distanti dal realizzare “due popoli, due Stati”, ma per la prima volta dopo quasi 50 anni si intravvedeva una possibilità concreta di soluzione politica della guerra israelo-palestinese.
Con la morte di Rabin, quella speranza è tramontata in fretta. Ci sono in particolare due fattori che vale la pena sottolineare e che, al sottoscritto, allora inviato in Israele, sono balzati agli occhi. Anzitutto la profonda divisione che attraversava sia Israele sia i palestinesi. L’assassino di Rabin non era un fanatico isolato, era il frutto di un clima avvelenato che si respirava in Israele. Il premier e il suo ministro degli Esteri Shimon Peres erano oggetti di attacchi violenti da parte della destra, e lo stesso voto in Parlamento per ratificare gli accordi non fu pacifico: la Knesset approvò con 61 voti a favore, 50 contrari e 8 astensioni.
E anche se si affrettò a condannare severamente l’omicidio di Rabin, il leader del Likud Benjamin Netanyahu da mesi guidava una campagna feroce contro il primo ministro e l’accordo di Oslo, ed erano cresciuti i gruppi più estremisti che godevano di una certa impunità anche nell’ambiente universitario: i manifesti che circolavano con Rabin vestito da ufficiale delle SS, erano già una sentenza. «Gli elementi estremisti della destra avevano creato un’atmosfera tale che un assassino si sarebbe sentito giustificato ad agire», mi disse Ehud Shprinzak, allora docente di Scienza della Politica all’Università ebraica di Gerusalemme e massimo esperto della destra religiosa. Il clima era così arroventato che anche allora, come per il 7 ottobre 2023, ci furono molte polemiche sulla sicurezza fino a sospettare che, per avvicinarsi a Rabin, Amal avesse potuto contare sulla complicità di alcuni agenti che avrebbero dovuto proteggere il premier.
Ma anche tra i palestinesi c’era una profonda divisione, tanto che anche Arafat era nel mirino dei suoi nemici interni. Hamas, allora forza crescente, così come la Jihad islamica e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) costituirono un “fronte del rifiuto”, che negli anni successivi – parallelamente alla crescente perdita di fiducia in una soluzione diplomatica – andò aumentando il suo peso politico all’interno del mondo palestinese.
Quelle divisioni restano tuttora, sarebbe ingenuo pensare che il conflitto sia semplicemente “israeliani contro palestinesi”, c’è anche un conflitto interno ai due campi. La differenza è che oggi, anche in virtù di quanto accaduto 30 anni fa, sia tra gli israeliani sia tra i palestinesi prevalgono le forze ostili a un accordo di pace che preveda la coesistenza tra i due popoli, a prescindere dalla forma istituzionale che si può trovare.
E qui si colloca il secondo fattore da sottolineare, quello religioso. Anche se l’opposizione a un qualsiasi accordo ha anche motivazioni politiche, non c’è dubbio che sia tra gli israeliani sia tra i palestinesi oggi prevalgano o abbiano grande influenza le posizioni religiose fondamentaliste, il che rende impossibile qualsiasi compromesso. Cosa vuol dire? Provo a spiegarlo con due incontri che feci in quei giorni. Il primo a Hebron, tra gli ebrei ortodossi che vivevano in una enclave, un’oasi architettonica, pulita e ordinata, circondata dal disordine e dalla sporcizia della città araba. A parlare è Mishael, un insegnante, che sintetizza un pensiero comune: «Io voglio la pace, non ho nulla contro gli arabi, ma la terra non possiamo dargliela, è Dio che lo dice. Dio ci ha dato questa terra, è scritto nella Bibbia. Adesso non possiamo dire a Dio: no, grazie non la vogliamo, diamola ai palestinesi».
Il secondo a Betlemme, all’uscita della moschea che fronteggia la chiesa della Natività; tra decine di musulmani che si fermano a parlare tra di loro, uno interpreta il pensiero di tutti: «Nella Palestina non c’è spazio per due Stati. Questa è tutta terra dell’islam. Gli ebrei? Quelli che c’erano già prima possono restare, ma all’interno dello Stato islamico».
Se la terra è parola di Dio non c’è spazio per compromessi. L’unica possibilità che si riapra uno spiraglio di speranza è che queste posizioni vengano ridotte ed emarginate. Si riferiva probabilmente anche a questo il Patriarca latino di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, quando nelle scorse settimane diceva che c’è bisogno di volti nuovi sia tra i politici sia tra i religiosi, persone che desiderino veramente e parlino una lingua di pace e convivenza.
Un’ultima cosa vorrei raccontare, un incontro che mi ha particolarmente colpito e che dà la misura della tragicità dell’assassinio di Rabin per il popolo ebraico. David Bar Ilan, nipote del fondatore dell’Università di Tel Aviv che porta lo stesso nome (Bar Ilan) e successivamente consigliere politico di Netanyahu, usava la Bibbia per spiegare: «Quello che è accaduto è già tutto scritto nel capitolo 24 del secondo libro delle Cronache», riferendosi alla congiura che portò all’uccisione di re Ioas, a sua volta responsabile della lapidazione di un profeta. «La verità – spiegava - è che ciò che stiamo vivendo è più che tragico per il nostro popolo: sempre, nella storia, quando ebrei hanno cominciato ad uccidere altri ebrei si è assistito al trionfo dei nemici di Israele».
Avvertimento o profezia, il fatto è che l’assassinio di Rabin peserà a lungo sull’evoluzione dei rapporti israelo-palestinesi.
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