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CRISI ECONOMICA

La ripresa che non c'è. Ma Draghi resta saldo al potere

I segnali della crisi economica sono molto gravi, con l'inflazione più alta dagli anni Ottanta, l'impennata dei costi dell'energia e le industrie che cessano l'attività per l'aumento delle spese. In altri tempi sarebbe caduto il governo. Al contrario, l'esecutivo Draghi regge bene, perché i partiti sono troppo lacerati al loro interno. 

Economia 07_02_2022
Mattarella e Draghi

Lo spread sfonda il tetto dei 150 punti, l’inflazione torna ai livelli degli anni Ottanta (quasi 5% su base annua), il costo dell’energia è cresciuto a gennaio del 450% su base annua rispetto al gennaio dell’anno precedente, i consumi si contraggono, la produzione industriale è crollata, sempre il mese scorso, dell’1,3%, dopo il -0,7 di dicembre 2021. La pandemia rallenta ma il quadro economico italiano non è dei migliori. Nonostante questo, il governo sembra destinato a navigare in acque tranquille per un anno, o almeno fino a ottobre, quando i parlamentari si saranno assicurati il diritto alla pensione, essendo a quel punto la legislatura arrivata a 4 anni, sei mesi e un giorno. L’asse Mattarella-Draghi, uscito rafforzato dalla riconferma del Capo dello Stato e, conseguentemente, anche dell’inquilino di Palazzo Chigi, ha messo sotto scacco i partiti, sempre più marginali negli attuali assetti e sempre meno in grado di incidere su questo ultimo anno di legislatura.

In qualsiasi altro periodo della storia d’Italia, con indicatori economici così catastrofici, si sarebbe aperto un dibattito in Parlamento sulle ricette migliori per uscire dalla crisi e sulla possibilità di sostituire alcuni ministri del governo o addirittura di sfiduciare l’intero esecutivo. Oggi non succede nulla di tutto questo perché i partiti sono lacerati al loro interno e tirano a campare in vista delle prossime scadenze elettorali. Solo i centristi di Brugnaro e Toti sperano di ricavare qualche poltrona da un eventuale rimpasto, mentre tutte le altre forze politiche che sostengono l’attuale esecutivo preferiscono non muovere alcuna pedina per paura che crolli tutto. Infatti il premier pare intenzionato a tirare dritto senza discutere, salvando anche le poltrone dei ministri tecnici (da Franco a Colao, da Lamorgese a Cingolani), che erano quelli finiti nel mirino di Lega e Pd.

Ma veniamo all’emergenza economica, sempre più allarmante. La battuta d’arresto della produzione industriale fa dire a Confindustria che di questo passo non ci sarà alcuna crescita perché molte imprese non hanno più convenienza a produrre e, visti gli altri costi di energia e materie prime, preferiscono spegnere i loro impianti. Il Centro studi di viale dell’Astronomia indica, infatti, che la contrazione della produzione industriale è dovuta al caro-energia e al rincaro delle altre commodity, che azzerano i margini di guadagno delle imprese. Ecco perché questa risalita del Pil, iniziata timidamente l’anno scorso, rischia di svanire. Materiali insufficienti, scarsità di manodopera, impennata dei costi di esportazione e dei tempi di consegna: tutto congiura contro la ripresa. Il Governo, che ha puntato tutte le sue speranze sui progetti del Pnrr, rischia di rivelarsi inadeguato a fronteggiare questi segnali.

Ma a dirsi preoccupati non sono solo gli industriali. Anche Confcommercio scorge all’orizzonte nubi fosche e rivede al ribasso le proprie stime sul Pil per quest’anno: dal 4% stimato a dicembre al 3,5-3,7%. D’altronde, il mese scorso, anche il Fondo monetario internazionale aveva tagliato per quest’anno le stime del Pil italiano dello 0,4%, dal 4,2% al 3,8% e dello 0,6% nel 2023, dal 2,8% al 2,2%. Segno che la fiducia internazionale nell’Italia si sta assottigliando, nonostante la riconferma di Mattarella sia stata considerata un tassello importante sulla strada del consolidamento della ripresa post-pandemia del nostro Paese.

Evidentemente, anche con Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi, la spinta propulsiva del sistema economico italiano non è così forte da compensare i nodi strutturali che da decenni angustiano il nostro Paese: un debito pubblico gigantesco, una burocrazia elefantiaca che tarpa le ali alle attività imprenditoriali, un costo del lavoro insostenibile, un fisco oppressivo per famiglie e imprese, un’incertezza politica che non legittima strategie di lungo periodo.

Su queste basi ci attende un 2022 di grandi fibrillazioni, che l’attuale governo sarà chiamato a gestire intervenendo sulle principali criticità e aiutando le imprese a produrre di più e meglio. Già smettere di parlare tutti i giorni di Covid sarebbe un grande passo in avanti. Bisognerebbe evitare di continuare ad allarmare l’opinione pubblica sul rischio contagio, perché in questo modo le attività economiche e commerciali sono formalmente aperte ma in realtà continuano a rimanere pressochè ferme e vuote. Occorre dunque ripartire dal fattore fiducia, che in economia è fondamentale per riattivare virtuosi meccanismi di crescita.