La “papessa” di Canterbury, culmine del naufragio anglicano
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La nomina di Sarah Mullally a primate d'Inghilterra è il coronamento di una chiesa sfigurata a forza di aperture che qualcuno vorrebbe introdurre anche in casa cattolica. Ma il porto sicuro è la tradizione apostolica: il monito di Newman vale anche per noi.

Il 1° novembre prossimo papa Leone XIV proclamerà san John Henry Newman dottore della Chiesa. Ormai oltre un secolo e mezzo fa Newman cercava di scuotere il mondo anglicano – il proprio mondo – per tentare di ricondurlo al porto sicuro della Chiesa apostolica, nell’alveo della tradizione dei Padri, scongiurando i naufragi del cristianesimo liberale, soggetto allo spirito di questo mondo. È noto che la risposta delle autorità anglicane fu tranchant: la linea scelta da Newman era troppo “romana”, troppo simile al cattolicesimo continentale, e pertanto inaccettabile. Né la gerarchia anglicana né buona parte dei colleghi di Oxford avevano compreso che Newman non guardava solamente indietro, al IV-V secolo della Chiesa, ma guardava anche molto avanti, intuendo quali pericolose derive si stessero delineando all’orizzonte.
Ironia della sorte – che altro non è se non il modo con cui la Provvidenza sorride di fronte allo stolto agitarsi degli uomini – vuole che esattamente duecento anni dopo l’ordinazione presbiterale di Newman (1825) nella chiesa anglicana, sia per la prima volta una donna ad essere nominata arcivescovo di Canterbury, massima autorità spirituale della Comunione anglicana e primate d’Inghilterra. In pratica, la “papessa” anglicana, sebbene l’essenza e la modalità di esercizio di questa autorità siano del tutto differenti da quelle del Successore di Pietro.
Si tratta di Sarah Mullally, sposata e madre di due figli, di professione infermiera (professione che ha lasciato nel 2004 per dedicarsi al ministero), “ordinata” presbitero della chiesa anglicana nel 2002 e vescovo nel 2015 (preferiamo evitare quella sorta di ossimoro che vorrebbe si scriva “presbitera” e “vescova”), proprio dal suo predecessore, l’allora arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, dimessosi lo scorso anno in seguito ad accuse di copertura di uno scandalo legato alla pedofilia. L’annuncio è arrivato ieri, 3 ottobre, dal portavoce della Crown Nominations Commission, ossia la commissione chiamata a scegliere, con maggioranza dei due terzi, i candidati arcivescovi di Canterbury e York, che devono poi essere presentati all’approvazione del re.
La nomina di Sarah Mullally, a dire il vero, non sorprende affatto. Non si tratta né di una rivoluzione, né di una svolta, come riportano alcune agenzie o titolano alcune testate, ma della logica conseguenza della scelta che la chiesa anglicana fece a partire dall’11 novembre 1992, durante il proprio Sinodo, quando si decise di aprire la possibilità alle donne di accedere al sacerdozio; due anni dopo, il 12 marzo 1994, trentadue donne ricevettero l’ordinazione. Altri vent’anni (2014) e il voto democratico delle assemblee sinodali spalancò le porte anche all’episcopato (ricordiamo che tutti gli ordini sacri conferiti nella chiesa anglicana sono invalidi). Era chiaro già da allora che, in quanto vescovi, anche le donne potevano divenire le “inquiline” di Lambeth Palace. Ed in effetti, alla prima occasione possibile – ricordiamo che Welby fu nominato nel 2013, un anno prima della decisione sulle donne-vescovo –, la chiesa anglicana non ha perso l’occasione di mostrare al mondo la propria decadenza.
Perché in fondo si tratta del coronamento di quella logica che Newman aveva denunciato come la più pericolosa, che, in nome di una presunta libertà dello spirito, affrancava la chiesa dalla sua sottomissione alla tradizione dei Padri per assoggettarla alle decisioni politiche e allo spirito del tempo. È in conseguenza di questa singolare emancipazione che la chiesa anglicana si è espressa a favore della libertà di scelta delle donne relativamente all’aborto, della possibilità in certi casi (ricorda qualcuno?) del ricorso all’eutanasia come espressione della pietà cristiana, del riconoscimento e benedizione delle coppie omosessuali, purché stabili e unite civilmente, coronamento di un percorso di discernimento triennale, denominato Living in love and faith, guidato proprio dalla Mullally. Per non parlare del divorzio, che è nel suo nativo corredo cromosomico.
Non ci resterebbe che rattristarci della realtà del mondo anglicano, che, respinta la mano tesa della misericordia di Dio, che aveva suscitato al suo interno una sorta di nuovo Elia inviato ai Samaritani, nella persona di John Henry Newman, si ritrova ora a precipitare verso l’abisso con allegria e soddisfazione. Come sul Titanic. Se non fosse, però, che anche tra le più alte sfere della gerarchia cattolica si ammicca ad aperture simili, inclusa quella al sacerdozio femminile. Numerosi bastioni sono già stati ampiamente scossi e pericolose brecce sono state aperte nei vari Sinodi targati Francesco: dalla comunione ai divorziati-risposati che continuano a vivere more uxorio, ormai una realtà in tutte le diocesi, alla riapertura delle discussioni sul celibato sacerdotale, sul diaconato femminile, alle benedizioni alle coppie dello stesso sesso. Nonché la sovversione del senso stesso del Sinodo dei vescovi, con la possibilità conferita ai laici non solo di intervenire, ma anche di votare; una novità anche questa “francescana”, che avvicina spaventosamente i Sinodi della Chiesa cattolica alla struttura tricamerale (House of Bishops, House of Clerics, House of Laity) dei General Synods della chiesa anglicana. E speriamo che le similitudini finiscano qui.
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