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CHIESA

La dottrina non è in saldo

La legge della gradualità, ribadita dalla maggioranza dei padri sinodali, implica una flessibilità pastorale legata a una dottrina "certa e immutabile", come diceva il santo Giovanni XXIII. Alcuni vescovi ascoltati al Sinodo spingono invece per la gradualità della legge, ovvero tacere la verità o accomodarla ad uso dell'interlocutore.

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Ecclesia 18_10_2014
Sinodo

Sui temi quali la comunione ai divorziati risposati, l’omosessualità, l’indissolubilità del matrimonio e simili sempre più prelati – sia dentro che fuori dal Sinodo -  si sbilanciano nel dire che ci vorrebbe più pastorale e meno dottrina, quasi fossero in competizione tra loro. Da qui la strana idea che tanto più sei attento alla pastorale tanto meno dovrai esserlo sulla dottrina e viceversa.

In realtà la pastorale sta alla dottrina come, in ambito morale, l'ortoprassi sta all'ortodossia. Se io non penso bene non potrò agire mai bene (pensare bene però non è l’unica condizione per comportarsi bene). La pastorale è la declinazione nei contesti concreti dell'immutabile dottrina della Chiesa, nei modi più efficaci secondo spazio e tempo per trasmettere la fede e la morale. Se il contenuto è immutabile, muta e deve mutare la forma per trasmettere il contenuto. Quindi se vogliamo la dottrina può anche far meno della pastorale, nel senso che dal punto di vista teoretico può essere studiata e amata di per sé. La verità sta in piedi da sola.  La verità è Cristo e in quanto Dio non abbisogna di nulla. Ma la pastorale non può far a meno della dottrina, perché il contenuto delle azioni di evangelizzazioni derivano da quest’ultima.

Anche il Concilio Vaticano II, così tanto evocato nei lavori sinodali e nei media, ha naturalmente rispettato questa gerarchia: prima la dottrina e poi la pastorale. Il fine di questo Concilio era pastorale non nel senso che poco importava la dottrina della Chiesa ai padri conciliari, ma nel senso che da una parte non si proponeva il fine di una nuova definizione dogmatica e dall’altra voleva trovare gli strumenti più consoni ai tempi moderni per trasmettere le verità di fede e morale.

Nel Discorso di apertura del Concilio Vaticano II il Santo Padre Giovanni XXIII infatti illustra il fine del Concilio con queste parole: “Nell’indire questa grandiosa assemblea, il più recente e umile Successore del Principe degli Apostoli, che vi parla, si è proposto di riaffermare ancora una volta il Magistero Ecclesiastico, che non viene mai meno e perdura sino alla fine dei tempi; Magistero che con questo Concilio si presenta in modo straordinario a tutti gli uomini che sono nel mondo, tenendo conto delle deviazioni, delle esigenze, delle opportunità dell’età contemporanea” (2.2). E poi più avanti nel paragrafo, già di suo esplicativo nel titolo, “Compito principale del Concilio: difendere e diffondere la dottrina”, così il Papa si esprime: “Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace (5.1). […] Il ventunesimo Concilio Ecumenico […] vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica (6.2). […] Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione (6.5)”.

Uno degli ingredienti più efficaci della pedagogia cristiana nell’evangelizzazione è poi la gradualità dell’azione pastorale nei confronti dei lontani – categoria assai richiamata dai padri sinodali - i quali lontani sono spesso assai vicini per non dire dentro la Chiesa stessa. È quanto insegna Cristo: “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera" (Gv 16,13), espressione che rimanda ad un percorso di perfezione a tappe. Così anche San Paolo: «Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete» (1Cor 3,1-2). Insegnamento fatto proprio anche da Tommaso D’Aquino il quale nell’azione di educazione al bene poneva come centrale la legge della gradualità (cfr. Summa Theologiae, I-II, q. 96, a. 2). Legge della gradualità, ma non gradualità della legge (cfr. Giovanni Paolo PP. II, Omelia per la conclusione del VI Sinodo dei Vescovi, 25 Ottobre 1980; 8). La dottrina può essere appresa gradualmente, ma senza alterarne il contenuto: sì alla comunione ai divorziati, sì a derubricare l’omosessualità a peccato lieve, etc.

Detto in altri termini c’è un pericolo: tacere parte della verità o comunicarla secondo le frequenze d’onda del mio interlocutore può adulterare la verità stessa. Prendere toma per Roma è facile nella trasmissione delle fede. Anche nella Bibbia si dice che “Dio non esiste”. Peccato che però prima ci sia scritto: “lo stolto pensa” (Salmo 52, 2). Omettere questo particolare fa torto alla verità. Così la Gaudium et spes al n. 62: “Altro è, infatti, il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono espresse, a condizione tuttavia di salvaguardarne il significato e il senso profondo”. Insomma possiamo dar da mangiare la verità ai lontani a bocconi e non intera per non strozzarli (legge della gradualità), ma a patto che i bocconi non siano avvelenati (gradualità della legge).

Ma oggi il vero problema pastorale – evidentissimo in alcune relazioni sinodali - non è quello della misconoscenza della legge di gradualità, bensì della piena vigenza della legge dell’immobilità. Si rimane fermi, quando va bene, ad un mera condivisione con il mondo laico – mondo presentissimo anche alla Domenica a Messa - di scipiti punti comuni propri di un umanitaresimo libertario per non urtare le coscienze, per non allontanare, per non dividere. Insomma si evita a giusta posta di arrivare ai punti nevralgici della fede cristiana, soprattutto quelli di ordine morale, messi costantemente tra parentesi per malintesi motivi di ordine pastorale, per non perdere consensi. Un cristianesimo senza Cristo, un’insipida pappetta priva di quei sapori troppo forti per piacere a tutti.  Anzi con convinzione si crede ormai in molti ambienti sedicenti cattolici che questa pappetta sia davvero ciò che Cristo ha “cucinato” per noi.

La pedagogia graduale di Cristo invece ad un certo punto arriva al nocciolo della questione che, non c’è nulla da fare, divide e lacera perché inflessibile. Ce lo ricorda Giovanni quando, dopo un discorso di Gesù incentrato sulle esigenze ineludibili di chi vuole seguirlo, alcuni discepoli così commentavano le sue parole: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?” (Gv 6,60). E non si riferivano solo alla profondità e quindi per loro alla cripticità di ciò che stava dicendo Gesù, bensì alle difficili e impegnative richieste che Questi rivolgeva a chi desiderava diventare suo discepolo. Ed infatti “da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (6, 66).

Puoi rimandare l’appuntamento con gli aspetti più scomodi della dottrina cattolica, temporeggiare aspettando tempi e circostanze migliori per fare apostolato, ma non all’infinito. Prima o poi il “lontano” sarà lui stesso a chiederti di prendere una posizione definitiva interrompendo questo gioco di melina. La pastorale porta alla verità, ma se quest’ultima alla fine risultasse indigesta (divieto a chi è in peccato mortale di ricevere la Santa Comunione) non possiamo darla via in saldo, fare un passo indietro per compiacere Scalfari, Vito Mancuso e il nostro collega divorziato e risposato.