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polemiche

La "censura meloniana" ai giornalisti Rai è una fake news

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Nessuna epurazione contro il giornalismo d'inchiesta, solo normali trasferimenti. Il vero problema è una tv di Stato che invece di rappresentare gli italiani è succube delle tensioni politiche.

Politica 29_06_2023

Tra le accuse più ricorrenti che vengono rivolte alla cosiddetta “Rai meloniana” c’è quella di aver abolito il giornalismo d’inchiesta per far posto ad altre priorità tra cui la genitorialità, la natalità e la difesa della famiglia naturale.

Si tratta di un’accusa davvero grottesca per una serie di ragioni. Anzitutto bisogna chiarirsi sul concetto di giornalismo d’inchiesta, che dovrebbe essere quel filone della ricerca giornalistica incentrato sull’utilizzo corretto e disciplinato di fonti confidenziali per svelare notizie di innegabile interesse pubblico che non verrebbero fuori attraverso le fonti ufficiali. In altre parole, il giornalismo d’inchiesta si serve di informatori riservati, di telecamere nascoste e altri mezzi fraudolenti per documentare scene e situazioni che portano l’autorità giudiziaria ad intervenire per sventare reati e l’opinione pubblica a formarsi un’opinione consapevole su fatti, personaggi e realtà che altrimenti non verrebbero compresi nella loro interezza.

In Italia, però, gran parte del giornalismo d’inchiesta ha un’altra finalità: colpire obiettivi predeterminati, combattere battaglie politiche, ideologiche, culturali e anche di altro tipo, scavando nella vita privata di “nemici” da distruggere perché sono al governo o perché non godono delle simpatie di un editore. Questo accade da sempre e accade anche in Rai, in base al colore politico di chi sta al governo e orienta le nomine e la programmazione del servizio pubblico radiotelevisivo.

La sinistra non dovrebbe dunque meravigliarsi, né tanto meno gridare allo scandalo se il governo Meloni ha già provveduto a sostituire alcuni vertici della tv pubblica e sta pensando di rinnovare e modificare la programmazione e i palinsesti.

Ma i principali contenitori del cosiddetto giornalismo d’inchiesta sono destinati a rimanere e sono anzi già stati confermati dai nuovi vertici di viale Mazzini. La trasmissione Report, più volte accusata di colpire a senso unico, prendendo di mira esponenti di centrodestra, resterà nei palinsesti e verrà spostata a domenica sera, per rimpiazzare Fabio Fazio, che spontaneamente ha deciso di andarsene e che nessuno ha cacciato dalla Rai. Con la ripresa autunnale, la domenica sera, in prima serata ci sarà Report.

Difficile parlare di bocciatura o di epurazione. Si tratta semplicemente di un trasloco di orario, che anzi potrebbe far crescere gli ascolti di quella trasmissione. Identica resterà invece la collocazione in prima serata, un giorno della settimana, del programma “Chi l’ha visto?”, condotto da Federica Sciarelli, che certamente non può essere considerata filo-governativa. La stessa Serena Bortone,  vicina al Pd e a Enrico Letta, e che ha condotto quest’anno la striscia quotidiana pomeridiana su Rai 1, prenderà il posto di Massimo Gramellini il sabato sera, e pertanto non verrà fatta fuori. Infine, Lucia Annunziata, che ha deciso di andarsene dalla Rai dopo 18 anni, verrà rimpiazzata la domenica pomeriggio da Monica Maggioni.

Appaiono dunque pretestuose le critiche di censura e di abolizione del giornalismo d’inchiesta con riferimento al nuovo corso Rai inaugurato da questo governo. Ed è curioso che l’allarme sia arrivato proprio da Sigfrido Ranucci, conduttore di Report: «Il giornalismo d’inchiesta sta vivendo un momento molto particolare. Mi risulta che il contratto di servizio presentato alla Rai sia stato privato di una parte che c’era nel vecchio contratto di servizio che riguardava la valorizzazione del giornalismo d’inchiesta. Se questo fosse vero sarebbe gravissimo, perché a fare il contratto di servizio è stato il ministero del Made in Italy, guidato da Urso, che è stato oggetto di un’inchiesta di Report».

Ranucci si riferisce a un documento, il contratto di servizio, che ha durata quinquennale, e che è in scadenza. Dunque occorre rinnovarlo, ma i lavori per il suo rinnovo erano già iniziati durante il governo Draghi, quindi l’attuale esecutivo si è trovato un documento più o meno già del tutto impostato. Peraltro le integrazioni rispetto al contratto di servizio in scadenza sono molto ridotte e non sono collegate ai cambi politici. Il furore ideologico di alcuni vertici Rai sta però emergendo in queste ore in maniera sorprendente e imbarazzante. Ad esempio il consigliere d’amministrazione Riccardo Laganà, analizzando la bozza del nuovo contratto di servizio, ha evidenziato la presenza delle parole “natalità e genitorialità” prima della “parità di genere e delle pari opportunità”. Ci si lega a questi dettagli e si denunciano presunte censure, omettendo che i precedenti contratti di servizio, che sancivano valori come il pluralismo e l’indipendenza, sono stati sempre ignorati nella loro attuazione in quanto calpestati sistematicamente dall’invadenza degli interessi politici. Altro che giornalismo d’inchiesta.

L’ennesima sterile polemica sulla Rai rimanda alla questione fondamentale che tocca la sua stessa ragion d’essere: può esistere una tv di Stato sistematicamente dominata dalle tensioni e dalle polemiche politiche, quando invece dovrebbe democraticamente rappresentare tutti gli italiani a prescindere dalle simpatie e dalle appartenenze?
 



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