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OLIMPIADI DEL GENDER

Khelif e Lin, ecco perché non ci dicono la verità

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La ferma determinazione del CIO e dei protagonisti della vicenda a non chiarire i dubbi sulla sessualità di Imane Khelif e Lin Yu-ting sta diventando un messaggio efficace per cambiare la mentalità comune sull'identità personale, relegando la definizione del sesso ad aspetto secondario.

Editoriali 09_08_2024
Imane Khelif

Il caso Imane Khelif, il/la pugile algerino/a la cui partecipazione a tornei femminili è contestata per la sua sospetta androginia, continua a tenere banco; ma è interessante notare come gradualmente l’informazione si sia assestata su una linea univoca: Imane è donna, anzi pienamente donna, e guai a chi lo mette in dubbio. Addirittura Aldo Cazzullo, per il Corriere della Sera, è andato a seguire il suo incontro di quarto di finale per cantarne la sua femminilità e condannare senza appello chi la contesta.

In mezzo un diluvio di interventi di genetisti, bioeticisti, medici di ogni tipo che si sono sbizzarriti nelle diagnosi più svariate per conciliare l’aspetto maschile di Imane con il suo esibito certificato di nascita che la indica come femmina.
Peraltro si deve ricordare che in Italia si è parlato quasi esclusivamente di Imane perché ha incrociato la strada della pugile italiana Angela Carini, con tutte le polemiche che ne sono derivate. Ma c’è un altro/a pugile nella stessa identica situazione di Imane, il/la taiwanese Lin Yu-ting. Entrambi/e si giocheranno ora la medaglia d’oro nella finale delle rispettive categorie.

Non vogliamo qui aggiungere l’ennesima diagnosi o ipotesi su cosa sia accaduto a Lin e Khelif durante lo sviluppo, che tipo di anomalie ormonali e genitali abbiano realmente e quanto questo incida sulla loro competitività.
Vogliamo invece riassumere le uniche due cose certe della vicenda e mettere in rilievo la “morale della favola”, ovvero la conclusione a cui sta portando il caso.

Dunque, prima certezza: nessuno, a parte i diretti interessati, sa effettivamente quale sia la vera condizione di Imane Khelif e Lin Yu-ting. Tutte le diagnosi che abbiamo letto in questi giorni sono pure ipotesi basate su decine di anomalie genetiche possibili, ma appunto ipotesi. Né può essere considerata decisiva la posizione dell’International Boxing Association (IBA), che nel 2023 aveva escluso i/le due pugili dal campionato mondiale perché considerati biologicamente maschi. Per quanto il concetto sia stato ribadito in questi giorni, non c’è alcun documento che possa essere verificato.
Ma a fronte di questa incertezza, è da rilevare che chi conosce la verità – cioè i diretti interessati e chi li circonda – tace. Ovvero, è deciso a non far sapere. C’è una chiara determinazione a mantenere tutto nel vago, indefinito; con la complicità, se non addirittura su suggerimento, del Comitato Olimpico Internazionale (CIO). Al punto che chi ha provato a chiedere chiarezza, magari con dei test risolutivi, è stato accusato di violazione dei diritti umani.

La seconda questione è in realtà una evidenza per chiunque abbia ancora del buon senso: seppure la boxe non è certo uno sport che esalti la femminilità, a vedere Khelif e Lin sul ring si nota la differenza con le loro avversarie, quanto a portamento, struttura fisica e potenza. Non basta questo a garantire la vittoria, ma è certo un vantaggio. In ogni caso basta osservare per farsi venire fondati dubbi: non danno l’idea di donne con atteggiamento virile, ma proprio di uomini. Sarebbe scontato quindi, anche per motivi di sicurezza delle loro avversarie, chiedere una verifica. Del resto anche alcune avversarie di Khelif e Lin, seppure obbligate a combattere, hanno cercato di far capire il loro disappunto per una competizione ingiusta e pericolosa: la bulgara Svetlana Kamenova Staneva, sconfitta ai quarti di finale da Lin, alla fine dell’incontro si è rivolta al pubblico facendo il segno della doppia x (i cromosomi femminili) e si è rifiutata di salutare Lin; e l’ungherese Luca Hamori prima dell’incontro con Khelif aveva detto «combatterò contro un uomo» (per questo rischia anche una sanzione) e anche durante il match si è lamentata di questo con il suo allenatore.  

Ma la verifica è esattamente, come dicevamo sopra, quello che non si vuole fare. E qui arriviamo alla “morale della favola”. La gestione mediatica e politica del caso, infatti, giocando sull’ambiguità delle vicende personali di Khelif e Lin e demonizzando chiunque osi fare delle domande, indirizza l’opinione pubblica a credere che il confine tra maschile e femminile sia labile, non definibile con chiarezza. E che è importante soprattutto quello che uno sente di essere.

È un messaggio che passa così in un modo più efficace rispetto all’ammissione di un transgender alle competizioni femminili, perché questo, malgrado tutto, genera ancora un po’ di resistenza. Tanto è vero che il CIO aveva aperto ai transgender (anche senza bisogno di intervento chirurgico) già nel 2016, ma ancora se ne discute. Il trans, anche nell’immaginario collettivo, resta pur sempre un uomo (o una donna se ha fatto la transizione opposta) anche se si è sottoposto a intervento chirurgico e bombardamento ormonale.

Khelif e Lin invece no: possono esibire un certificato di nascita che le identifica come donne; e un giorno magari scopriremo che lo sono davvero a tutti gli effetti e che avevano diritto a competere in tornei femminili, malgrado il loro aspetto androgino. Ma questo passa in secondo piano rispetto a quel che oggi si vuole dimostrare nascondendo la verità della loro condizione: che il sesso non è un aspetto decisivo, che ognuno è libero di affermare la propria identità sessuale (anzi di genere) senza dover rendere conto a nessuno.

Nell’opera di cambiamento della mentalità comune sull’identità della persona e sul suo significato sta facendo molto più il caso di Khelif e Lin di tanti discorsi sul gender. Lo dimostrano anche le parole chiare di Imane Khelif affidate a un tweet, ripreso con entusiasmo da Cazzullo nel succitato articolo: «Ho dimostrato una cosa semplicissima: Imane è Imane».

P.S: Aggiornamento 9 agosto, h. 13.00: Il nostro amico don Gabriele Mangiarotti ci segnala una notizia che ci era sfuggita: dallo scorso 31 gennaio Imane Khelif è ambasciatore dell'UNICEF (vedi qui), eletta a «modello» per i diritti dell'infanzia. È un tassello significativo che fa comprendere come Khelif sia già parte di un sistema che va ben oltre lo sport. E che quanto accade oggi a Parigi sia meno casuale di quanto si potesse pensare.



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