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Il Libano attende il Papa in un clima di catastrofe imminente

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Il Paese dei cedri è devastato ed esausto, esposto al rischio una nuova offensiva israeliana, che Hezbollah ceda o meno le armi. Ma l'annunciata visita di Leone XIV potrebbe allontanare il pericolo e ha già restituito un soffio di vita.

Esteri 11_10_2025
Donna di Hezbollah (foto di Elisa Gestri)

Il nostro periodo tra Libano e Siria è finito e ci apprestiamo a rientrare in Italia. Lasciamo a Beirut una sensazione generale di catastrofe imminente, diffusa in tutti gli ambienti che abbiamo frequentato. Le persone che abbiamo incontrato, dalla volontaria della ONG all’uomo politico, dal sacerdote fino al tassista che ci accompagna in aeroporto, esprimono varie sfumature dello stesso concetto: non appena Israele finirà in qualche modo con Gaza, auspicabilmente con la pace preparata da Trump, si rivolgerà al Libano.

Più che di un timore, si tratta di un’amara constatazione supportata sia dai discorsi che dai fatti. I discorsi che pesano di più sono quelli di Tom Barrack, inviato speciale USA per Siria e Libano nonché portavoce non ufficiale dei desiderata israeliani nella regione. Barrack continua ad avvertire attraverso ogni canale le istituzioni libanesi: gli Stati Uniti non approvano lo stato delle cose, Hezbollah deve essere disarmato entro fine anno pena una nuova aggressione israeliana, stavolta potenzialmente letale.
Nonostante gli sia stato affidato da Trump un compito delicatissimo, Barrack non brilla per esperienza sul campo né per doti diplomatiche; i suoi ripetuti indirizzi al Libano più che richieste sembrano minacce, nemmeno troppo velate, che in ogni caso il fragile Libano non ha la forza di rispedire al mittente.

L’oggetto principale delle esternazioni di Barrack è sempre il disarmo totale di Hezbollah, a cui le istituzioni libanesi sono tenute il prima possibile; non si comprende però come tale compito, già estremamente complesso di per sé, possa essere portato a termine, se lo stesso Barrack ha affermato in un’intervista che gli Stati Uniti non intendono armare l’esercito regolare libanese, che nelle sue parole è «ben intenzionato ma non ben equipaggiato», perché poi vada a «combattere Israele». «Lasciamo che Gerusalemme si occupi di Hezbollah e dell’Iran», ha concluso.
Simili contraddizioni della diplomazia americana generano comprensibilmente panico in un Libano effettivamente inerme e privo di mezzi di difesa; panico che non resta circoscritto alla sfera psicologica individuale ma si traduce a livello sociale in stagnazione, blocco degli investimenti, paralisi della vita pubblica.

D’altro canto i vertici di Hezbollah colgono ogni occasione per ribadire il loro rifiuto di cedere le armi all’esercito libanese e la loro vicinanza all’Iran.
A proposito del piano di pace USA per Gaza, l’anziano leader di Hezbollah Naim Qassem ha dichiarato che si tratta di un’operazione di supporto al progetto israeliano della “Greater Israel”, di cui peraltro Netanyahu non ha mai fatto mistero. «Ci troviamo tutti quanti ad affrontare questo pericolo, poiché tutti siamo a rischio, in Libano e nell’intera regione», ha concluso il suo intervento sull’argomento.

Gli avversari politici di Hezbollah – essenzialmente l’area sunnita e i cristiani delle Forze libanesi, ma non solo – accusano la formazione sciita, che si ostina a disobbedire al governo e a non voler consegnare le armi, di paralizzare il Paese, ostacolare le riforme in atto e attirare le ire israeliane sul Libano.
Tutti sanno, però, che se lo Stato Ebraico intende portare una nuova offensiva in territorio libanese lo farà, sia che Hezbollah ceda le armi sia che non lo faccia.

E qui dai discorsi passiamo ai fatti cui accennavamo in apertura di articolo: secondo le ultime stime ufficiali, dal 27 novembre 2024, giorno in cui fu siglata la tregua tra il Libano e Israele, IDF ha portato in territorio libanese 4905 attacchi, uccidendo 280 persone e ferendone 569. Una media di circa 28 persone al mese sono state uccise durante il cessate il fuoco, tuttora in vigore, principalmente nel sud del Libano ma anche nella valle della Bekaa, a Beirut, a Saida, a Baalbek.

È difficile credere che tutte le vittime fossero membri di Hezbollah come sostiene Israele, dato che tra i caduti si annoverano bambini e ragazzi, famiglie intere, passanti, operai colpiti mentre lavoravano alla ricostruzione di villaggi distrutti. Netanyahu ha dichiarato più volte che le aggressioni in territorio libanese non cesseranno finché l’ultimo esponente di Hezbollah non sarà stato eliminato, e che non ha intenzione di ritirare le postazioni di IDF che attualmente occupano il sud del Libano – inizialmente erano cinque, ora se ne contano almeno sette.

«Per il Libano ci vorrebbe un miracolo», sospira Carla (nome di fantasia), la giovane referente di una piccola ONG italo˗libanese ormai a corto di fondi, mentre ci augura buon viaggio di rientro. «Aajibe», miracolo, ripete. La sensazione che il Libano sia un Paese ormai finito non ci abbandona, ce la portiamo dietro fino in Italia.

Eppure un miracolo in qualche misura è accaduto: l’annuncio della prossima visita papale nel Paese dei Cedri potrebbe allontanare il pericolo imminente di un’invasione israeliana e, chissà, portare a una riduzione delle aggressioni in corso. Non converrà infatti allo Stato Ebraico che il Santo Padre trovi un Libano devastato da IDF più di quanto non lo sia già. Non sappiamo se la diplomazia vaticana, nel finalizzare a breve una visita apostolica auspicata da lungo tempo, abbia tenuto conto di questo fattore; ma ci piace pensare di sì.

Frattanto in Libano la macchina organizzativa si è mossa, ci sarà da fare per molti, e dall’annuncio di martedì scorso un soffio di vita percorre inaspettatamente un Paese esausto e bloccato. Al di là della retorica, questo ci pare già un risultato importante.



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