Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
TESTIMONIANZA

Il delitto Nemtsov spiegato da lui stesso

L'uccisione di Boris Nemtsov, liberale russo, oppositore di Vladimir Putin, è stata vissuta come uno shock, sia in Russia che all'estero. Ovviamente proliferano le teorie del complotto. Ma Nemtsov cosa diceva della sua paura di essere assassinato? Ecco la genesi di un delitto, attraverso le parole della vittima.

Esteri 01_03_2015
Boris Nemtsov

Quattro colpi di pistola. Boris Nemtsov, ex vicepremier e ministro dell’Energia ai tempi di Eltsin, poi divenuto uno dei principali oppositori politici del presidente russo Vladimir Putin, è stato freddato così, sul Ponte di Pietra, a pochi passi dal Cremlino, in pieno centro a Mosca, venerdì notte. E' stato colpito alle spalle, da sicari determinati e ben preparati, che sapevano come trovarlo e dove ucciderlo, arrivati e fuggiti a bordo di un'auto bianca.

A ventiquattro ore dal delitto, è appena aperta la caccia all’assassino. Il presidente Putin, esprimendo le sue personali condoglianze alla madre del politico assassinato, ha promesso pubblicamente di portare davanti a un giudice gli artefici di questo “vile e cinico delitto”. I precedenti, però, non fanno ben sperare. Anche per un altro delitto eccellente, quello della giornalista Anna Politkovskaja, a nove anni di distanza non è ancora noto il mandante. Intanto, a poche ore di distanza dall’assassinio di Nemtsov, stanno proliferando in rete teorie del complotto di ogni genere. E le autorità russe non fanno molto per frenarle. I primi indiziati del ministero dell’Interno russo sono gli islamisti. Ma gli integralisti islamici ceceni non hanno mai agito in questo modo, in Russia: in tutti i numerosi attentati che hanno compiuto, soprattutto dal 1999 ad oggi, sparano nel mucchio, compiono attentati in grande stile e poi li rivendicano. L’eliminazione mirata di un politico moscovita che ha ben poco a che vedere con la questione cecena, non rientra nelle loro caratteristiche. Putin ha subito contribuito a seminare complotti al vento, parlando, nelle sue primissime dichiarazioni, di “mossa destabilizzante”. Una tesi subito rilanciata da Michail Gorbachev, ultimo presidente sovietico, che ha subito sposato la tesi della destabilizzazione, del delitto commesso dai nemici di Putin per gettare discredito sul presidente: una tesi tipicamente sovietica, che ha sempre molto successo all’estero. Ma che suona veramente implausibile: il delitto è avvenuto a due passi dal Cremlino, in una delle aree più sorvegliate della più sorvegliata città russa. Un agente straniero che fosse riuscito a commettere un delitto politico di alto profilo in quell’area, sarebbe la peggior sconfitta per la sicurezza della Russia.

E’ bene, prima di lanciarsi nelle ipotesi teoriche, riascoltare quel che Nemtsov stesso diceva della sua possibile uccisione. Perché l’ex ministro non era affatto inconsapevole del rischio che stava correndo. Quando lo incontrai, nel giugno del 2009, a Senago, in occasione di una tavola rotonda degli autori della casa editrice Spirali, parlammo subito dei pericoli della politica russa. Mi fece notare che la vicina Finlandia ha molte rappresentanti politiche donne, fino ai massimi vertici. Non così la Russia, anche se Finlandia e Russia hanno una storia in comune che dura fino al 1917. “Non è per questioni di cultura o per pregiudizio maschilista: è che le donne hanno più paura, per se stesse e per le loro famiglie. Fare politica in Russia è ancora un mestiere troppo pericoloso per la gente normale”. Non riteneva di appartenere a questo tipo di politica: nel 2009 aveva già deciso, da anni, di passare all’opposizione di un sistema dove “si fa strada solo la gente forte, fisicamente forte e capace di intimidire la gente”.

Allora non temeva di morire, diceva di ritenersi relativamente al sicuro. Fino a quel momento erano stati assassinati intellettuali, attivisti, giornalisti. Mai, però, si era arrivati a sparare a un ex ministro, nonché volto noto dell’opposizione politica. La seconda volta che incontrai Nemtsov, sul finire del 2009, la sua sicurezza era già calata poiché era già stato vittima di arresti lampo. Manifestava da solo, in piazza, come prevede la legge anti-assembramento, quando due agenti provocatori gli si affiancarono e fecero scattare le manette per “manifestazione di gruppo” non autorizzata. Non sarebbe stata l’ultima volta: Nemtsov sarebbe stato arrestato in diverse altre occasioni, negli anni successivi. La sua paura per un possibile omicidio politico, da quegli episodi in poi, ha continuato a crescere. Non era un timore infondato. Nelle ultime manifestazioni nazionaliste “anti-Maidan” in Russia, a sostegno delle regioni separatiste del Donbass e del presidente Putin, Nemtsov era spesso raffigurato nei manifesti come “organizzatore dei Maidan” e “nemico” della patria. La Tv russa ci metteva del suo: oggi, se Nemtsov non fosse stato assassinato, sarebbe stato trasmesso un documentario che lo ritraeva come un agente straniero, ennesima teoria del complotto costruita sul suo nome. L’oppositore aveva ricevuto minacce dirette e si era rivolto alla polizia per denunciarle. Nelle ultime interviste affermava che Putin stesso, probabilmente, lo voleva morto, a causa della sua opposizione al conflitto in Ucraina. Temeva il sistema putiniano, che considerava un regime sempre più simile al totalitarismo sovietico.

Sul putinismo, nella mia intervista per L’Occidentale, Nemtsov mi disse che:  “La nostra democrazia emergente è finita definitivamente il 25 ottobre 2003, il giorno dell’arresto di Khodorkovskij. A quei tempi ero il leader dell’Sps (Unione delle forze per i diritti, partito liberale, ndr). Immediatamente dopo l’arresto, Vladimir Putin ha dato l’ordine di dimenticare Khodorkovskij, di non provare nemmeno a difenderlo. Subito dopo l’arresto, Putin ha iniziato a imporre la censura sulla stampa e sulla televisione”. Quanto alla possibilità di far politica dall’opposizione: “Putin ha lentamente cancellato i partiti di opposizione, cambiando il sistema elettorale e soprattutto il meccanismo per la registrazione. In base alle leggi attuali, un partito può essere registrato solo se ottiene il permesso del presidente”. Secondo il leader liberale, comunque, il sistema Putin era fragile dalle fondamenta: “Putin ha instaurato un sistema estremamente costoso: una grande burocrazia, grandi monopoli e una grande corruzione. Tutto questo pesa sui conti in modo insostenibile. E’ un sistema che richiede un’incredibile quantità di denaro. E i soldi arrivano alla Russia solo dalla vendita di petrolio e gas: siamo una Repubblica delle Banane nel vero senso del termine, un Paese che si regge sulla vendita di un unico prodotto. Dipendiamo da un unico parametro: il prezzo delle risorse energetiche. Se il prezzo è alto, il putinismo sopravvive. Se si abbassa per un lungo periodo, il putinismo muore. Ecco perché penso che, prima o poi, questo sistema verrà distrutto, per le stesse ragioni per cui è implosa l’Unione Sovietica”.

Attualmente la Russia sta attraversando proprio un periodo prolungato di crisi, dovuta (più che alle sanzioni) al calo drastico dei prezzi energetici. Ecco perché non è da escludere che Mosca stia per affrontare un momento di forte crisi politica, dovuta a fattori economici, interni. Come tutte le grandi politiche russe, lascia la sua scia di sangue.