I martiri negati di Ronda, due volte vittime del Terror rojo
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Dopo il martirio, l'oblio. Precipitati vivi dal Puente Nuevo con l'accusa di essere "nemici del popolo", attendono giustizia dal 1936. L'ennesimo crimine su cui gli eredi ideologici dei loro massacratori hanno imposto il silenzio.

Ronda è una delle più antiche e belle cittadine dell'Andalusia, che in parte conserva la sua antica struttura araba. Una profonda impressionante spaccatura (tajo), lunga 60-80 metri e con un abisso di 160 metri sul torrente Guadalevín, divide la città in due parti, unite dal Puente Nuevo, costruito nel 1784-88. Questo è lo scenario di una piccola grande storia che voglio raccontare per ricordare anche quest’anno il 18 luglio 1936.
Ottantanove anni fa, Ronda era una città popolata per lo più da artigiani e contadini ben radicati nella tradizione cattolica di Spagna. Le maggioranza delle famiglie viveva fedelmente le proprie credenze e pratiche religiose, che portavano uomini e donne ad un conseguente forte amor di patria e rifiuto della sovversione politica e morale anti-nazionale. Questo ancora non causava particolari momenti di crisi con la parte minoritaria degli abitanti, che invece simpatizzava per la Rivoluzione al potere con la Seconda Repubblica. La convivenza era, sì, pacifica, ma poggiava su un equilibrio fragile, soprattutto perché nell’intera Spagna dopo la proclamazione della Repubblica si erano intensificate violenze anti-religiose e contro possidenti terrieri, borghesi, e militanti di destra.
La “vittoria” (con le virgolette, perché essa, oltre che di margine esiguo, viene ottenuta grazie a brogli e violenze) elettorale del Fronte Popolare nel febbraio 1936, anche a Ronda come nel resto della Spagna, scatena vieppiù non solo la pressione propagandistica anarco-marxista e massonica anti-cristiana, ma anche le violenze di piazza e la repressione “legale” contro gli stessi bersagli. Viene intensificato l’appello alla lotta di classe ed alla eliminazione sociale – in realtà essa adombra quella fisica – dei “nemici del popolo”: come s’è detto, ecclesiastici, possidenti, imprenditori, artigiani, professionisti, militanti delle varie destre spagnole. E progressivamente s’instaurano poteri di fatto delle organizzazioni rivoluzionarie, paralleli a quelli legali, ma con la benevola indulgenza, quando non con la complicità, di questi ultimi. La persecuzione il 18 luglio 1936, quando si diffonde la notizia dell’Alzamiento Nacional, si perfeziona con un impossessamento della città da parte dei miliziani anarchici e dei militanti dei partiti socialista e comunista, oltre che da parte delle truppe lealiste al governo socialcomunista.
In uno stato di anarchia – ovunque l’Alzamiento non abbia avuto successo, e quindi anche a Ronda, nella zona rimasta repubblicana, cioè rossa –, le caserme aprono le porte ai miliziani, che le invadono per procurarsi le armi; le chiese vengono assaltate, saccheggiate e spesso incendiate. Le immagini religiose sono bruciate in piazza, i crocifissi fucilati per le strade, le abitazioni dei “nemici del popolo” requisite non senza essere depredate. Chiunque fosse noto, denunciato anche in modo anonimo, o anche solo sospettato d’essere sostenitore dell’Alzamiento e di Franco viene arrestato, spesso torturato e ucciso dalle checas comuniste – il nome è la traslitterazione spagnola di ČEKA, la polizia politica sovietica, modello per tutti i comunisti del mondo – che operavano giorno e notte, non cercando giustizia, bensì eliminazione, assoggettamento e sottomissione totali. Chi si rifiuta di gridare «Viva la Revoluciòn!» è sospetto, e come al tempo del Terrore giacobino essere sospettati è una sentenza di morte.
S’instaura quello che storici onesti hanno chiamato Terror rojo. Un regime de facto di poteri paralleli, senza legge, senza morale, senza umanità, che porta, tra tante, alla mattanza di Ronda, ritenuta, quantitativamente e qualitativamente, una delle peggiori da parte dei rojos nella cosiddetta guerra civil (in realtà una cruzada dei fedeli della Spagna cattolica e legata alle proprie tradizioni, Dios, patria y fueros).
Tra luglio e settembre del 1936 circa duecento persone – non armati, non combattenti, ma uomini, donne, adolescenti ritenuti “nemici del popolo” e terminati in modo atroce per la loro fede, le loro idee, la loro appartenenza sociale – vengono precipitati vivi nell’abisso dal Puente Nuevo. Senza essere sottoposti ad alcun giudizio, all’alba i prigionieri delle checas vengono prelevati a piccoli gruppi, picchiati lungo il percorso e infine senza pietà buttati giù per circa centosessanta metri nel torrente sottostante.
E se qualcuno incredibilmente sopravvive – certo momentaneamente – al volo, ci pensano i miliziani appostati sul greto del fiumiciattolo a finirli senza pietà. Nessuno viene risparmiato dei presos, nemmeno anziani ultrasettantenni, donne incinte e ragazzini di quindici anni. Spesso basta per incorrere nel terrore rosso che nell’abitazione dei sospetti di essere contro-rivoluzionari venga trovata una croce. Nessuno recupera i corpi, il Guadalevin si trasforma in un cimitero a cielo aperto, ma soprattutto nessuno può piangerli in pubblico, reclamarli: l’alternativa è il silenzio o la morte.
Solo quando nell’autunno del 1936 l’esercito nacional libera Ronda, l’orrore viene scoperto e le famiglie possono provare a recuperare i corpi dei loro cari, ma spesso questi sono decomposti e irriconoscibili.
È solo durante il tempo di Franco che le vittime sono commemorate e riconosciute come martiri. Ma mai è stata fatta giustizia reale. Mai i colpevoli sono stati individuati e perseguiti. E quando s’impone la democrazia, con essa cala il silenzio e l’oblio sulla mattanza rossa di Ronda, come su tutti gl’innumerevoli altri crimini del terrore rosso. Però la giustizia pretende che i martiri della città andalusa abbiano un volto, un nome, che i morti non siano dimenticati.
Negli anni, gli eredi ideologici dei massacratori, oggi al potere in Spagna, hanno negato e negano questi crimini, dicono che non vi sono prove, parlano di propaganda franchista, di mito. Ma le prove – documenti, testimonianze, verbali di constatazione di cadaveri insepolti e decomposti, ricerche storiche rigorose – sono schiaccianti.
Ronda attira migliaia di turisti con il suo paesaggio maestoso, ma chi sa? Mi rappresento i turisti percorrere il suggestivo ed emozionante Puente Nuevo, senza non dico sapere, ma nemmeno immaginare ch’è stato il patibolo d’un orribile eccidio rosso. In nome d’una falsa equidistanza, s’è rimossa la sofferenza di migliaia di persone colpite negli affetti dalla barbarie rossa a Ronda. Non v’è una lapide, un’iscrizione, una targa toponomastica che ricordi e dignifichi le centinaia di persone innocenti che, dopo essere state torturate, picchiate, in una sorta di foibe anticipate e all’aperto, furono crudelmente lanciate nell’abisso, e brutalmente finite se sopravvivevano al volo.
Si deve conservare la memoria e alzare la voce perché il male non sia occultato in una dimenticanza pianificata e che diventa, da amnesia, un’amnistia per i criminali rossi.
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