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DELITTO DI LECCO

I gemelli uccisi e un malessere che riguarda tutti

Facile parlare di Bressi come di una personalità maniacale che di fronte alla richiesta di separazione dalla moglie si è ribellato uccidendo prima i figli e poi se stesso. Facile ridurre il problema al maschio padrone. La tragedia di Lecco è sintomo di un modo di vivere diffuso dove al centro ci siamo solo noi e i nostri diritti. Dove la felicità coincide con la gratificazione. Per salvarci dalla violenza e dal possesso distruttivo abbiamo bisogno di compredere la convenienza del "sacrificio".

Editoriali 30_06_2020

Facile scagliarsi contro l’assassino come fa il Corriere della Sera descrivendo, non si sa in base a quale fonte, la vita scrupolosamente programmata di un uomo a cui piaceva ricevere complimenti per «quei figli che ovunque andasse gli procuravano complimenti e l’appagavano». Facile parlare, sempre come fa il Corriere, del 45enne Mario Bressi come di una personalità maniacale che al primo problema (la separazione richiesta dalla moglie) si è ribellato all’esistenza uccidendo prima i due gemelli di 12 anni e poi se stesso. Facile chiuderla con l’identikit del padre-padrone che non può sopportare che moglie e figli non siano un suo possesso. Facile giudicare folle la scelta di vivere una vacanza immersi nella bellezza della montagna per poi farla finita, dimenticando la disperazione che può assalire quando la tua famiglia si sta lacerando.

Facile, perché queste ricostruzioni e interpretazioni si fondano su un habitus diffuso, per cui si vive incentrando tutto sul piacere e la gratificazione, sulla riuscita e sul possesso personali. Ammesso che le cose stessero davvero così, a vivere e far prevalere questo criterio non era solo Bressi e nemmeno sua moglie, che voleva la separazione perché (per una ragione sconosciuta alle cronache) non era più contenta della sua vita matrimoniale. Infatti, questa propensione a mettere sempre al centro sé e le proprie esigenze è preponderante da quando la società ha fatto dell’egoismo, quindi del dominio e del controllo, la norma. Da quando tutti siamo spinti a vivere solo per noi stessi, senza mai pensare alle conseguenze che i nostri atti hanno sugli altri e quindi sul bene comune.

Vuoi un figlio che non arriva? Compratelo, ti dice il mondo. Non sei felice con tuo marito? Lascialo. Vuoi un bambino con una persona dello stesso sesso? Prenditelo. Vuoi uccidere un genitore anziano? Prego. Un pargolo inatteso ti ruba la vita? Ammazzalo. Vuoi il successo e aspiri a una carriera brillante? Lascia che istituzioni e colf crescano la tua prole. Vuoi che tuo figlio corrisponda al tuo ideale di perfezione? Plagialo. Vuoi? Afferra. E se qualcuno ti dice che non è giusto, dagli del retrogrado integralista e ogni obiezione cadrà.

Peccato che da quando il potere è divenuto l’ideale i conflitti prevalgono ovunque: sul lavoro, nelle amicizie e ovviamente ancor di più dove gli uomini vivono fianco a fianco, ossia nelle famiglie. E, infatti, anche se la retorica preferisce farci credere che la famiglia sia un male in sé, il problema resta nel come gli uomini e le donne, spesso cresciuti pensando che la felicità coincida con il proprio tornaconto, la vivono.

Certo, ora ci si straccia le vesti di fronte all’omicidio di due innocenti, perché non si può scappare dalla violenza brutale di un padre che dopo aver scherzato, riso, giocato con i suoi figli li uccide. E nemmeno si può evitare la lama che trapassa il cuore immedesimandosi nei gemelli che hanno visto colui che doveva farli sentire al sicuro colpirli in preda ad un abisso di male. Non si può, ma, invece che cercare di capire, si relega il problema al sesso maschile, mentre si continua a tacere su tutte le altre forme di violenza (magari più educate) che stanno permeando ogni aspetto del vivere.

Chi infatti si scandalizza più per i bisogni dei bambini messi da parte quando mamma e papà se ne vanno perché “non sono più felice” o perché “non ti amo più” o perché “sono innamorato di un altro/a”? Purtroppo quasi nessuno. E, infatti, l’avvocato della donna ha dichiarato, senza accorgersi del cortocircuito, che lei voleva la separazione da mesi, ma senza conflitti, e che pertanto è impossibile capire come mai l’uomo possa aver pensato di distruggere sé e la sua famiglia.

Se gli "indignati" volessero veramente combattere il fenomeno dei cosiddetti “femminicidi” e delle violenze e stragi famigliari, delle donne che usano i figli come arma in tribunale contro i mariti, o viceversa, dovrebbero tornare a rimettere al centro la parola che per la società dei diritti senza doveri è una bestemmia: «Sacrificio». Dovrebbero insegnare che per vivere una vita buona occorre prendersi delle responsabilità, che amare significa donarsi proprio quando l’altro fatica o quando non corrisponde più all’immagine che ci piaceva. Bisognerebbe poi ammettere che fino a quando il “finché ne ho voglia” sarà un imperativo a pagare sarà sempre chi la sua volontà non la può far valere, ossia i piccoli, gli innocenti che mai come oggi sono costretti a saldare il prezzo dell’edonismo adulto.

Infine, i giornali raccontano Bressi come un “oratoriano”, quasi ad insinuare che chi vive nell’ordine e nella morale cattolica poi scoppia quando qualcuno la contraddice. Non sappiamo se l'uomo frequentasse davvero la parrocchia, ma certamente se molte famiglie anche cristiane si ammalano è perché nessuno, a volte nemmeno la Chiesa, ricorda loro proprio la legge morale che hanno bisogno di sentirsi ripetere in continuazione: che si cresce e si prospera mettendo al centro delle proprie preoccupazioni gli altri. Che la croce costa fatica ma poi dà la vera gioia. Che per costruire il bello occorre sudare. Che l’amore si prova proprio quando l’altro è in difficoltà. Che quando ci si dimentica di sé la tristezza sparisce. E che quando l’uomo incomincia a vivere così, la famiglia diventa se stessa: la scuola necessaria ad ogni società per imparare ad accogliere, ad amare appunto.

Senza questo richiamo ideale al singolo viene meno anche la solidarietà fra le famiglie, il contesto di cui l’uomo, nella sua fragilità, ha costantemente bisogno: una compagnia che gli dimostri con la vita e lo incoraggi a sperimentare quanto è vero che si comincia ad essere lieti quando invece che pretendere che gli altri e le circostanze ci facciano felici li si abbraccia così come sono. Ché l’ideale è servire i propri cari, non possederli, perché il possesso alla fine frustra, mentre il donarsi appaga davvero. Serve la Chiesa che aiuti a domandare la grazia di vivere così e che ripeta con Gesù che «chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà».