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INTERVISTE / TAJANI E MONS. JALLOUF

I cristiani nella "nuova Siria" tra timori e caute aperture

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«Porte aperte» ma anche «occhi aperti» sulla nuova amministrazione siriana, dice il vicepremier a La Bussola; per il vicario apostolico di Aleppo si respira «un po' di libertà di espressione», ma precisa che a Idlib e Damasco non è possibile proclamare il Vangelo.

Esteri 27_08_2025

Al Meeting di Rimini si è tenuto un incontro dal titolo La presenza della comunità cristiana in Siria e la libertà religiosa, ospiti il vicepresidente del Consiglio e ministro degli esteri e della cooperazione internazionale Antonio Tajani e monsignor Hanna Jallouf, religioso francescano e vicario apostolico (l'equivalente di vescovo in terra di missione) di Aleppo e dei cattolici latini di tutta la Siria. La Nuova Bussola Quotidiana ha parlato con entrambi gli ospiti, alla luce dei gravi fatti che accadono quotidianamente in Siria dall'8 dicembre scorso, quando Hayat Tahrir al Sham e il suo leader Ahmed al Sharaa hanno preso il potere rovesciando il regime di Bashar al Assad.

Antonio Tajani è stato tra i primi leader occidentali a volare a Damasco dopo il regime change in Siria, e da allora la Farnesina si è tenuta in costanti rapporti diplomatici con il governo del Paese.

Onorevole Tajani, il 10 gennaio scorso lei era a Damasco a stringere buoni rapporti con il nuovo presidente della Siria Ahmed al Sharaa. Il 18 marzo ha poi ricevuto alla Farnesina il suo omologo siriano, Asaad al Shaibani, reduce da un incontro con i rappresentanti della UE a Bruxelles. È passato qualche mese e sono accadute diverse cose frattanto in Siria (le minoranze religiose hanno subito persecuzioni: migliaia di alawiti sono stati rapiti e uccisi nella zona della costa, 30 fedeli che assistevano alla S. Messa in una chiesa greco-ortodossa di Damasco sono stati uccisi, con il pretesto di una rivolta sono stati decimati i drusi della regione di Suwayda): vorrei chiederle se ha mantenuto la stessa opinione ancora oggi su al Sharaa e sul suo governo.
Sì. La strategia dell'Italia, che poi è la strategia europea, la strategia del G7, non è cambiata: è quella di favorire la stabilizzazione della Siria, l'unità territoriale della Siria perché la Siria è fondamentale per la stabilità dell'intero Medio Oriente. È chiaro che ci vuole tempo per stabilizzare la Siria dopo il cambiamento, dopo la caduta del regime di Assad; per il cambiamento ci vuole tempo, ci sono tante realtà diverse e per questo ho detto che serve mantenere l'unità della Siria. Noi siamo per la politica delle porte aperte nei confronti della nuova amministrazione siriana ma teniamo anche gli occhi aperti: certamente devono essere rispettati i diritti umani, devono essere rispettate alcune regole, però io credo che si debba dare fiducia incoraggiando il lavoro di Al Sharaa, che ha anche qualche resistenza da parte di estremisti islamici che vorrebbero spingere il Paese a diventare un Paese fondamentalista islamico. Al Sharaa mi ha detto che per lui esistono solo i siriani, indipendentemente dalla religione, quindi credo che si debba continuare a dare fiducia alla nuova amministrazione siriana lavorando, investendo ma stando anche con gli occhi aperti. La stabilità di quel Paese è fondamentale per tutti.

Hanna Jallouf, francescano siriano di origine armena, è nato a Knaye, provincia di Idlib al confine con la Turchia, dove è stato parroco per molti anni. Dopo aver affrontato a più riprese l'arrivo dell'ISIS nella regione, nel 2014 ha vissuto l'esperienza drammatica del rapimento da parte di uomini di Jabat al Nusra, la filiazione siriana di al Qaida. Nonostante queste vicende, non ha mai lasciato la regione, fino all'incarico episcopale ricevuto nel 2023.

Monsignor Jallouf, a quando risale la presenza cristiana nella provincia di Idlib?
Al 1878. Erano tempi di persecuzione da parte dei turchi ottomani e il parroco locale si rivolse per aiuto ai francescani, che inviarono i primi religiosi. Da allora, pur non avendo potuto annunciare il Vangelo con le parole, ci siamo fatti conoscere e apprezzare con la forza del nostro comportamento: la lealtà, l'onestà, la bontà, il soccorso al povero.

Nel 2014, quando era parroco a Knaye, fu rapito da estremisti di Al Nusra (la filiale siriana di Al Qaeda, ndr) assieme a un altro sacerdote e ad un gruppo di fedeli. Quanti giorni siete stati detenuti?
Venti giorni. Io ero in una cella assieme ad un'altra persona, mentre tutti gli altri, 17 persone, in un'unica cella. Furono picchiati perché si convertissero all'islam.

Secondo lei perché è stato trattato diversamente dagli altri? Come segno di rispetto in quanto sacerdote, oppure come sfregio per lo stesso motivo?
Non lo so. Ma penso più per rispetto.

Ha perdonato i suoi rapitori?
Sì, certamente. Non abbiamo dimenticato, ma perdonato sì.

Oggi è possibile proclamare il Vangelo a Idlib?
No.

E a Damasco?
Nemmeno.

Ora che è caduto il vecchio regime, c'è qualche cambiamento?
Al momento c'è sia paura che desiderio di novità. Dopo sessant'anni di un certo modo di vivere ora si respira un po' di libertà di espressione. Ci sono persone che non vogliono che lo Stato vada avanti: gli sciiti, Hezbollah e i simpatizzanti del vecchio regime. Ci sono anche miliziani di 83 paesi diversi entrati con Hayat Tahrir al Sham che non sono d'accordo con la linea di al Sharaa. Guardando le cose nell'insieme, da una parte c'è un'apertura al futuro, e allo stesso tempo c'è il rischio di estremizzazione del Paese che il popolo siriano vede male: capita ad esempio che gli autobus vengano fermati e i passeggeri divisi tra uomini e donne.

Questo rischio nel regime degli Assad non c'era: era un regime crudele, oppressivo, ma non lo si può certamente accusare di estremismo islamico.
La parola chiave del vecchio regime era “corruzione”. I vertici, a partire dal fratello di Bashar, Maher al Assad, e a sua moglie Asma, avevano diviso il Paese in settori in cui "mungevano” la gente.

Ha mai incontrato Bashar?
Sì, dopo essere stato nominato vescovo nel 2023 sono andato a trovarlo con una delegazione di responsabili delle nostre comunità. Abbiamo parlato a lungo.

Che impressione ne ha avuto?
L'idea che mi sono fatto è che lui non avesse potere di far nulla, ma che fosse legato e dipendente da chi aveva intorno.

Lei crede che all'inizio del suo regime Bashar volesse veramente un cambiamento in senso democratico?
A mio avviso sì. Il punto è che l'entourage del padre Afez gli ha impedito progressivamente di fare qualunque cosa, fino ad avere, quando l'ho incontrato io, le mani legate. Durante il nostro colloquio gli ho chiesto le autorizzazioni per aprire alcune scuole e i permessi per costruire un ospedale e una scuola su certi terreni: ha preso tempo, mi ha risposto che avrebbe dovuto sentire le persone competenti, il ministro dell'agricoltura.. ho avuto l'impressione che non avesse il potere di decidere nulla.

Ha ottenuto poi quei permessi e quelle autorizzazioni?
No.

E ora, dopo il cambio di regime?
Qualcosa abbiamo ottenuto, per alcune scuole.

Ha incontrato anche al Sharaa dopo che ha preso il potere in Siria?
Sì, certo.

L'aveva conosciuto anche ai tempi di Idlib?
Sì, molto bene. Quando fondò Jabat al Nusra venne a presentarsi. Quando dopo molti anni sono stato nominato vescovo, lui e i suoi offrirono a me e alla comunità un banchetto degno di un matrimonio, con tanto di bomboniere: “tu sei il nostro sposo”, mi dissero.

Faceva parte dell'entourage dei suoi rapitori?
Sì.

E che ne pensa?
Al Sharaa stesso ha detto che più si avanza con l'età, più si matura e si riconoscono i propri errori... Infatti ha tolto l'abito militare.

Al Sharaa fece questa affermazione quando prese il potere. Secondo lei è stato fedele alle parole che ha citato? Com'è adesso la situazione, per i cristiani in particolare?
Per noi cristiani un po' più tranquilla, sia a Damasco che ad Aleppo.

C'è spazio anche a livello politico per i cristiani?
Sì, certo. Con il Patriarca ortodosso Giovanni X siamo andati a chiedere spazio per i cristiani.

Nel luglio scorso al Sharaa ha annunciato elezioni politiche per settembre. A quanto sa sono state confermate?
No, al momento no. Però si capisce che non è facile per un Paese che viene da una dittatura diventare democratico: occorre tempo. Se a una donna occorrono nove mesi per formare il bambino nel grembo, a maggior ragione occorre tempo a un governo per trasformare un Paese.



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