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ORA DI DOTTRINA / 75 - LA TRASCRIZIONE

Gli angeli nella Tradizione – Il testo del video

I Padri dei primissimi secoli sottolineano che gli angeli sono creati e non creatori, confutando così l’eresia gnostica. Altro aspetto centrale: la comunione della liturgia terrestre con la liturgia della Chiesa celeste.

Catechismo 02_07_2023

Proseguiamo il nostro discorso sugli angeli. Domenica scorsa abbiamo cercato di fare una piccola ricognizione sulla presenza degli angeli nelle Sacre Scritture, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.

Oggi vediamo qualche cenno sulla presenza degli angeli, di queste creature spirituali, nella Tradizione della Chiesa. Ci chiediamo se la presenza angelica sia già attestata nei primi secoli, in modo particolare nei Padri e nelle testimonianze vive della Tradizione della Chiesa, che comprendono anche i testi e i riti liturgici.

Se c’è un aspetto che risulta estremamente chiaro nelle menzioni degli angeli nei Padri dei primissimi secoli – pensiamo a san Giustino (100-163/167) e a sant’Ireneo di Lione (130-202) in particolare – è la sottolineatura che si tratta di creature, cioè esseri spirituali creati da Dio e non creatori. Creati e non creatori. Perché questa particolare enfasi? Perché i primissimi secoli della storia della Chiesa sono segnati dalla grande presenza dello gnosticismo. Ora, questa corrente ereticale è un sistema che ha completamente sovvertito i dogmi, le verità della fede cattolica; se c’è un aspetto su cui lo gnosticismo insiste è proprio quello della presenza angelica, in senso ampio, come gli eoni, gli arconti, il demiurgo, eccetera. È una strutturazione molto complessa e non è questo un corso sulla gnosi, sullo gnosticismo, ma ci basti capire fondamentalmente che nella prospettiva gnostica non risulta chiaramente il fatto che questi esseri siano distinti da Dio e creati da Dio; l’altro aspetto è che invece risultano creatori. Cioè, nella gnosi, la creazione materiale del nostro mondo risulta frutto dell’opera del demiurgo e dei vari arconti che cooperano con il demiurgo.

Quindi, per contrastare questa eresia, i Padri dei primi secoli insistono su questi due aspetti fondamentali: 1) gli angeli sono creati; 2) gli angeli non sono creatori. Questo non significa che non hanno nulla a che vedere con la creazione, come specificheremo.

Vediamo un testo importante preso da Adversus Haereses (Contro le eresie) di sant’Ireneo di Lione. Nel libro I, al paragrafo 22, troviamo delle affermazioni molto chiare: «Noi teniamo salda la regola della verità che c’è un solo Dio onnipotente, che per mezzo del suo Verbo ha fondato, ordinato e creato dal nulla tutte le cose, perché tutte le cose esistessero». Prosegue sant’Ireneo: «Ora, dicendo “tutte le cose” non se ne esclude nessuna. Ma per mezzo di Lui [il Figlio], il Padre ha fatto tutte le cose, quelle visibili come quelle invisibili, quelle che si percepiscono con i sensi come quelle che si conoscono con l’intelletto, le temporali in base a qualche economia come le eterne. Non le ha create per mezzo di angeli né di alcune potenze staccatesi dal suo pensiero, perché il Dio di tutte le cose non ha bisogno di nulla, ma per mezzo del Verbo e del suo Spirito crea, dispone, governa e dà a tutte le cose l’esistenza».

Dunque, questo testo contiene due elementi fondamentali: 1) Dio è creatore di tutto, di tutte le cose visibili e invisibili. E dice chiaramente, quando parliamo di tutte le cose, parliamo di tutto: tutto quello che non è Dio; 2) e ancora vediamo che «non le ha create per mezzo degli angeli né di alcune potenze staccatesi dal suo pensiero». Questo è un riferimento appunto alla cosmovisione gnostica, di cui dicevamo sopra. Il testo di sant’Ireneo, dunque, è molto chiaro.

Se ci addentriamo ulteriormente nella questione, c’è un aspetto che caratterizza gli scritti dei Padri e anche la Tradizione della Chiesa soprattutto nei primi secoli e cioè il legame tra la liturgia terrestre, per così dire, cioè la liturgia della Chiesa in questo mondo, e la liturgia della Chiesa celeste, la liturgia degli angeli. È chiaro che il riferimento primario, forse quello più evidente, è il libro dell’Apocalisse. L’Apocalisse in qualche modo condensa questo aspetto e diventa il punto di partenza del pensiero successivo dei Padri: cioè, non sono tanto gli angeli che entrano nella liturgia della Chiesa, ma è la Chiesa che entra nella liturgia degli angeli. Dal punto di vista dell’iconografia, nei secoli ciò si è tradotto nella presenza di sculture o dipinti raffiguranti gli angeli nelle chiese, soprattutto attorno all’altare, nella parte del presbiterio o sulla volta.

Questa comunione della liturgia celeste con la liturgia della Chiesa quaggiù, la liturgia terrestre, è evidente nei testi liturgici stessi. Ci soffermiamo un po’ su questo aspetto, che è di straordinaria importanza. Non è solo il libro dell’Apocalisse, non sono solo alcuni testi dei Padri che legano queste due liturgie e che quindi fanno capire una cosa fondamentale: la liturgia della Chiesa non è qualcosa che fanno gli uomini, cioè che gli uomini inventano. Certo, è fatta dagli uomini, nel senso che gli uomini sono presenti, partecipano a questa liturgia: ma non è qualcosa che fanno loro, è qualcosa a cui partecipano, è qualcosa che ricevono.

Questo è stato il punto più ribadito da Benedetto XVI, prima di essere Papa e poi anche con la sua elezione al Soglio pontificio: la liturgia è qualche cosa che riceviamo e nella quale entriamo, non è qualche cosa che plasmiamo come se fosse l’opera delle nostre mani. Qual è il riferimento dietro a questa affermazione? Il riferimento è proprio questo: l’uomo entra a far parte di una liturgia che è anteriore a lui, sia per coordinate “temporali” sia per dignità. Ed è la liturgia che gli angeli svolgono davanti al trono di Dio e dell’Agnello, per l’eternità. A questa liturgia l’uomo prende parte attraverso la liturgia già in questa vita e poi in quella che sarà la liturgia eterna, senza fine, nella gloria del Paradiso.

Come dicevamo, abbiamo degli elementi importanti nella liturgia stessa, che ci indicano proprio questo legame, cioè il fatto che la liturgia terrena sia partecipazione della liturgia celeste. C’è un legame, una profonda unità tra queste due liturgie, che in realtà sono un’unica grande liturgia.

Il primo riferimento, sicuramente familiare, lo troviamo nella conclusione dei prefazi. Il Prefazio è quel bellissimo ringraziamento che si eleva appena prima del Sanctus e del Canone, cioè della Preghiera eucaristica. Ci sono diversi prefazi sia nel Rito antico che nel Rito nuovo, che ne ha aggiunti di ulteriori, ma in generale hanno tutti una conclusione che ricalca più o meno un tipo di struttura e di testo. Per esempio abbiamo una conclusione che dice: «Cum quibus et nostras voces, ut admítti iúbeas, deprecámur (...)», eccetera. Cioè, il sacerdote chiede a Dio di poter noi essere ammessi, con le nostre voci, a che cosa? Alla liturgia degli angeli. Prima c’è stata tutta la trafila, per così dire, degli angeli, e poi il Prefazio conclude così: Cum quibus (...), cioè «con gli angeli, comanda, ti preghiamo, o Signore, che le nostre voci siano ammesse (siano congiunte)».

Un altro testo, molto bello, è il seguente: «Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus, cumque omni milítia coeléstis exércitus, hymnum glóriae tuae cánimus, sine fine dicéntes: (...)». E poi segue il Sanctus. Di nuovo, vediamo questa partecipazione alla liturgia celeste: «Noi cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine… [il Sanctus]». Tutta la parte precedente ci dice che noi cantiamo «con gli Angeli e gli Arcangeli, i Troni e le Dominazioni e con ogni schiera della milizia celeste».

Dunque, questa parte così importante del sacrificio eucaristico, del Prefazio, sottolinea chiaramente che la nostra è una partecipazione alla liturgia del Cielo. Cioè, noi chiediamo a Dio, prima di cantare il Trisagion (il Sanctus), che le nostre voci possano essere unite, congiunte a quelle che incessantemente davanti al Suo trono celebrano la Sua grandezza, la Sua maestà, la Sua bontà. È un testo molto chiaro, molto bello, che costituisce una chiave per andare al di là di quella che potrebbe essere una prima, riduttiva immagine della liturgia come un momento conviviale (purtroppo esiste anche questa idea che l’Eucaristia sia un semplice momento conviviale della comunità), o semplicemente un momento di preghiera: è proprio una partecipazione alla liturgia celeste.

Un altro testo liturgico importante, più tardivo rispetto a quello del Prefazio, è un testo che nel Rito romano antico, cioè prima della riforma di Paolo VI, si trova nell’amministrazione dell’incenso durante l’Offertorio. Cioè, dopo che sono stati offerti i sacri doni, c’è l’incensazione dei doni e dell’altare. C’è una preghiera molto bella, rivolta a san Michele Arcangelo: «Per intercessionem beati Michaelis Archangeli, stantis a dextris altaris incensi, et omnium electorum suorum (...)». Eccetera. Quindi, viene benedetto l’incenso, poi ci sono altre preghiere. Qui c’è un (doppio) riferimento: un riferimento nominale a un arcangelo, san Michele, e a tutti gli eletti; e un altro riferimento al fatto che san Michele sta alla destra dell’altare dell’incenso. È interessante questa indicazione, perché permette di fare un duplice collegamento: 1) il primo è tra la liturgia della Chiesa e quindi l’amministrazione dell’incenso che avviene quaggiù e l’incenso che viene offerto al cospetto dell’altare del Cielo. 2) Ma indica anche un’altra cosa: c’è un collegamento con l’altare dell’incenso veterotestamentario, che stava nella parte più sacra della Tenda (e poi del Tempio), dove c’era il Santo, diviso con un tendaggio dal Santo dei Santi. Nel Santo c’era da una parte il candelabro, la Menorah, entrando sulla sinistra; dall’altra, sulla destra, l’altare dei pani, l’altare della proposizione; e di fronte c’era l’altare dorato degli incensi, che dovevano essere amministrati due volte al giorno.

Questo riferimento a san Michele che sta alla destra dell’altare dell’incenso collega, in modo bellissimo, il sacrificio dell’antico Israele (il sacrificio del mattino, il sacrificio vespertino) con il sacrificio del nuovo Israele, e con il sacrificio dell’incenso che avviene nella Gerusalemme celeste da parte di san Michele Arcangelo. Vediamo dunque questo ulteriore legame, molto bello e profondo.

Ancora, nel Canone romano, per il Rito antico (la Preghiera eucaristica I per il Rito nuovo, riformato), abbiamo, dopo la consacrazione, una preghiera molto bella e significativa, che il sacerdote deve fare con le mani giunte, appoggiate parzialmente sull’altare e inchinandosi profondamente. Deve dire, tra l’altro, una parte che in italiano suona così: «Fa’ che questa offerta, per le mani del tuo Angelo santo, sia portata sull’altare del cielo davanti alla tua maestà divina (...)». Iube hæc perférri per manus sancti Angeli tui in sublíme altáre tuum, in conspéctu divinæ maiestátis tuæ. Eccetera. Che cos’è questo? È un’indicazione molto forte di quello che abbiamo detto, cioè si implora il Padre che l’offerta che è sull’altare sia portata sull’altare del Cielo per le mani del tuo Angelo santo. Vediamo di nuovo questa mediazione angelica nella liturgia che collega la liturgia terrena con la liturgia celeste. Sono tutti elementi che indicano questo tema, così importante, della comunione o, meglio, della partecipazione della liturgia della Chiesa alla liturgia degli angeli.

Queste sono testimonianze del rito a noi più vicino, il Rito romano. Ma troviamo diverse testimonianze – tra cui una molto forte, specifica e bella – nel Rito bizantino: l’Inno Cherubico.

L’Inno Cherubico, che è stato composto intorno al VI-VII secolo circa, viene cantato (su Internet ci sono diverse versioni, una più bella dell’altra) nel Grande Ingresso, cioè quella grande processione che introduce la liturgia propria dei fedeli: mentre la prima parte della liturgia si chiama «Liturgia dei catecumeni», la seconda parte, quella offertoriale e sacrificale, è la liturgia propria dei fedeli.

Questa parte viene quindi introdotta con una processione solenne e il canto dell’Inno Cherubico, che ha tra l’altro ispirato le antifone di Offertorio che poi si sono sviluppate nella liturgia romana, con la differenza che appunto non è sempre lo stesso testo, ma varia a seconda delle solennità e delle domeniche. E purtroppo, almeno come testo proprio liturgico, non compare più nei messali, anche se rimane nel Graduale romano e quindi può essere cantato.

Una parte del testo dell’Inno Cherubico dice così: «Noi che misticamente imitiamo [o rappresentiamo, secondo un’altra traduzione] i cherubini e offriamo l’inno tre volte Santo alla Trinità vivificante, deponiamo ogni sollecitudine umana, stiamo per ricevere il Re di tutto, servito invisibilmente dagli ordini angelici». È un testo bellissimo, densissimo. Quel grande Re, che sta per essere sacramentalmente presente, servito dagli ordini angelici (ritroveremo questo riferimento agli ordini, in modo più esplicito, quando tratteremo l’opera di Dionigi l’Areopagita), viene in qualche modo “incarnato” dai fedeli che partecipiamo alla liturgia di quaggiù che misticamente imitano o rappresentano i cherubini.

Quindi, c’è un’identificazione che non è, per così dire, fantasiosa, non è qualcosa che ci immaginiamo, è qualcosa di reale: quello che avviene nella liturgia terrestre, è la partecipazione, nel modo proprio degli uomini, alla grande liturgia celeste. Quindi, nel Cherubico vediamo questa identificazione tra i fedeli (l’assemblea liturgica) e i cherubini, entrambi posti al servizio del grande Re, che si fa sacramentalmente presente nella liturgia.

Un altro riferimento molto eclatante è l’espressione cosiddetta del Bios Angelikós. Nei primi secoli è molto sentito il paragone tra la vita cristiana, la vita di perfezione dei cristiani, e la vita degli angeli. In particolare – e qui abbiamo molti più testi – tra l’ordo monasticus (cioè la vita del monaco, la vita monastica) e gli ordini angelici. Nell’antichità, e non solo, l’ordo monasticus viene visto come un ordine particolarmente collegato agli ordini angelici. Perché? Perché, all’interno della vita cristiana, è quella condizione di vita maggiormente dedita alla lode di Dio, alla celebrazione delle grandezze di Dio, al canto in particolare dei Salmi. Uno dei cardini della vita monastica è proprio la preghiera, il canto dei Salmi, con diverse sfumature nella caratterizzazione benedettina, che è quella che maggiormente si è diffusa, almeno nel mondo occidentale-latino, con la famosa suddivisione delle sette volte al giorno e durante la notte. Una vita orientata a imitare, nella modalità propria dell’uomo che vive quaggiù, ancora nel tempo, ancora nelle ristrettezze di questa vita, l’incessante e ininterrotto servizio angelico.

Già sant’Ambrogio in una lettera, l’Epistola 62, parlava dell’esercito angelico in riferimento a coloro che avevano abbracciato la vita verginale e la vita monastica, interamente dediti alla lode di Dio. Non a caso san Benedetto, nella sua Regola, esprime questo principio dicendo: «nulla si anteponga all’opera di Dio» (RB 43, 3), dove l’opera di Dio – l’Opus Dei – è proprio il canto corale della Salmodia, dell’Ufficio divino. Non a caso si chiama così: è un Officium, un servizio divino.

Santa Ildegarda di Bingen, questo grande Dottore della Chiesa, in una delle sue opere principali, Scivias, usa questo stesso principio e dice che «i monaci sono associati allo stesso servizio divino assolto in Cielo dagli angeli».

Dunque, non “solo” la liturgia, ma anche la vita che ruota attorno alla liturgia, l’ordo monasticus, e anche la vita del cristiano – questa sua tensione verso la santificazione, che non è opera delle proprie forze, è opera della Grazia – è partecipazione della vita angelica.

Vediamo dunque come anche qui c’è stato un certo slittamento: cioè, prima la grande vocazione cristiana era intesa proprio come una partecipazione alla vita angelica, ma non nel senso di una vita disincarnata. Può essere molto pericoloso pensare a una vita disincarnata, perché l’uomo ha un corpo, è nel suo corpo, è in un certo senso il suo corpo; dunque, parlando dell’uomo, non si intende per “vita angelica” una vita disincarnata, aerea, spirituale.

Vita angelica” va intesa nel senso di una vocazione dell’uomo, di una partecipazione a quella stessa lode che gli angeli, nel Verbo divino, in Gesù Cristo, offrono all’eterno Padre. Questo è il senso fondamentale della vita cristiana, e ancor più della vita monastica e anche degli Ordini sacri, cioè quelli conferiti con il ministero dell’Ordine. Anche qui c’è sempre questa sottolineatura della partecipazione alla lode della liturgia celeste.

La prossima volta ci focalizzeremo su due autori in particolare che hanno avuto un ruolo importante nella trasmissione della dottrina sugli angeli, ossia sant’Agostino e Dionigi l’Areopagita. Intanto speriamo di aver dato un’idea di come la presenza degli angeli è radicata nella Tradizione della Chiesa e con quale particolare sottolineatura.

 



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