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IL CASO

Germania, disabili discriminati in terapia intensiva

La Corte costituzionale tedesca accoglie il ricorso di nove persone disabili che denunciavano l'attuale legislazione in quanto li discrimina nell'accesso alle terapie intensive, nel caso di posti limitati. E invita il Parlamento a legiferare per porre rimedio.

Vita e bioetica 03_01_2022

Se due persone hanno bisogno contemporaneamente di essere ricoverate in terapia intensiva e se è libero un solo posto letto, cosa fare? A chi tra i due pazienti dovrebbe essere dato questo letto? Secondo il principio morale di efficacia o di proporzione, si dovrebbe dare il posto letto al paziente che ha più probabilità di sopravvivenza: se hai una sola cartuccia da sparare, utilizzala al meglio. In questo modo non si sceglie di far morire un paziente, ma si cerca la salvezza almeno di un paziente, non potendo salvarli entrambi e tollerando la morte di uno dei due (avevamo già indagato il tema più di un anno fa).

La Corte costituzionale tedesca si è pronunciata su questa ipotesi in relazione alle persone disabili. Infatti nove persone disabili hanno fatto ricorso alla Corte perché, secondo loro, l’attuale legislazione li discrimina in caso di triage per decidere chi può finire in terapia intensiva e chi non può. Situazione che pare essere diventata sempre più frequente durante l’attuale pandemia. La Corte ha dato loro ragione. In un comunicato stampa, i giudici della Corte hanno così dichiarato: “Finora il legislatore non ha adottato alcuna precauzione che contrasti efficacemente il rischio di svantaggio delle persone a causa di una disabilità nella distribuzione delle scarse risorse in terapia intensiva”. In breve, si tratterebbe di una colpa omissiva da parte del legislatore che andrebbe a cozzare con il divieto di discriminazione previsto dall'articolo 3, comma 3, frase 2 della Legge fondamentale tedesca (il corrispettivo della nostra Costituzione). Ma perché i disabili correrebbero il rischio di vedersi scavalcati da altri pazienti in terapia intensiva?

Seguiamo il ragionamento articolato dalla Corte. Innanzitutto anche per quest’ultima il principio di efficacia, a cui abbiamo accennato sopra, è il criterio principe da seguire nella situazione prima descritta: “Occorre assicurarsi che la decisione [su chi preferire] sia presa esclusivamente sulla base della probabilità di sopravvivenza attuale e a breve termine”. Correttamente i giudici restringono il lasso temporale per calcolare le probabilità di sopravvivenza alle ore e ai giorni immediatamente successivi al ricovero in terapia intensiva perché la previsione in merito alla sopravvivenza diventa sempre più incerta tanto più la stessa abbraccia il futuro.

Chiarito il principio cardine – chi ha più chance di sopravvivenza deve essere preferito – i giudici prendono atto che spesso le persone disabili non finiscono in cima alla lista in quanto a priorità di intervento, anzi la loro disabilità li penalizza in questo senso. Le linee guida dell’Associazione tedesca dei medici di terapia intensiva e d’urgenza (Divi), come appuntano i giudici, “chiariscono espressamente che non è consentita una graduatoria di priorità basata su malattie o disabilità di base”. Ciò a voler dire che malattie e disabilità non possono essere considerate indici generali per decisioni a priori relative alle cure: se tu sei un disabile, ipso facto, ciò significa che ti curiamo dopo gli altri pazienti perché su di te le cure certamente sarebbero meno efficaci.
Occorre invece valutare caso per caso e verificare che in quella specifica situazione concreta quella disabilità in quel paziente concorre ad intaccare le probabilità di sopravvivenza. Quindi, così dicono le linee guida della Divi, nessuna esclusione a priori di certe categorie di pazienti come i disabili, i malati di tumore, di cuore, etc. Bensì verifica, nella situazione concreta, delle condizioni dei pazienti per comprendere quali pazienti hanno più chance di salvarsi rispetto ad altri. Dunque no a valutazioni a priori, sì a valutazioni a posteriori.

Detto ciò i giudici aggiungono che giustamente “nelle raccomandazioni [della Divi] altre malattie gravi, intese come comorbilità e fragilità, sono descritte come indicatori negativi per le possibilità di successo del trattamento in terapia intensiva”. E qui arriviamo al problema sul quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi: “a questo proposito – scrivono sempre i giudici –  non si può escludere che una disabilità sia generalmente associata a comorbilità o, in modo stereotipato, a scarse prospettive di guarigione”. I giudici ci stanno dicendo che, secondo alcuni studi scientifici, report di istituzioni del settore e associazioni di disabili, a volte alcuni medici in modo sbrigativo identificano una certa disabilità come una malattia grave che darebbe poche probabilità di sopravvivenza, non verificando invece caso per caso se quel paziente disabile abbia davvero poche chance di farcela. Insomma questi medici scadrebbero in quella valutazione a priori che prima abbiamo censurato: disabilità uguale poche probabilità di sopravvivere. Una semplicistica equazione nata da “stereotipi inconsci” che “comportano un rischio di svantaggiare le persone con disabilità quando c’è da prendere decisioni mediche”.

Ecco quindi l’invito della Corte al Parlamento: per evitare queste letali discriminazioni occorre una legge, dato che le linee guida della Divi, seppur eticamente valide, non sono giuridicamente vincolanti. Una legge che, da una parte, non potrebbe che limitarsi ad indicare criteri generali di cura, tra cui in primis  quello legato alle probabilità di sopravvivenza, e che, su altro versante, dovrebbe necessariamente lasciare l’ultima parola ai medici stessi proprio perché è impossibile che la legge riesca a prevedere e quindi a regolamentare ogni possibile situazione futura. Occorre quindi che la legge indichi i principi cardine a cui ispirarsi, ma poi sarà onere del medico, operando in scienza e coscienza, declinare questi stessi principi nel concreto, specificare nel caso particolare la loro portata.