Gaza: tra fame e bombe lo stritolamento della Striscia
La speranza di poter sopravvivere alle nefaste conseguenze di questa immane sciagura, in cui è incappata la popolazione di Gaza, va scemando col passare del tempo. Fra bombardamenti e aiuti umanitari che entrano col contagocce, i palestinesi della Striscia muoiono tutti i giorni.

La speranza di poter sopravvivere alle nefaste conseguenze di questa immane sciagura, in cui è incappata la popolazione di Gaza, va scemando col passare del tempo. Gli aiuti umanitari entrano nella Striscia con il contagocce, una goccia in un oceano di disperazione, per gli oltre due milioni di abitanti affamati da più di novanta giorni.
Con la poca farina che è entrata, alcuni panifici hanno ricominciato a preparare il pane, che qualche forno improvvisato è riuscito a sfornare. I genitori chiedono ai figli di farsi un varco tra la marea umana, ammassata alla ricerca di qualche busta contenente quel prezioso alimento. «È sempre più preoccupante e dolorosa la situazione nella Striscia di Gaza. Rinnovo il mio appello accorato a consentire l’ingresso di dignitosi aiuti umanitari e porre fine alle ostilità, il cui prezzo straziante è pagato dai bambini, dagli anziani e dalle persone malate», ha affermato Leone XIV al termine della sua prima udienza generale del mercoledì.
Ma le immagini, che giungono da quei luoghi, sono drammatiche. A Nuseirat giovani e ragazzini salgono sui muri, altri sulle spalle dei familiari in fila. Alzano le mani nella speranza che qualcuno possa passare qualcosa. Nessuno ha pietà di loro. Majed Abu Ramadan, responsabile degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, ha dichiarato: «È entrato un numero minimo di camion con gli aiuti. Questo è un primo passo fondamentale, ma l'assistenza deve essere intensificata. Il pane da solo non basta alla gente per sopravvivere. Quattordicimila bambini potrebbero morire senza gli aiuti alimentari disperatamente necessari». Ma oltre alla mancanza di cibo aumenta anche la pressione militare contro gli indifesi cittadini di quella che una volta era la Striscia di Gaza.
Dopo mesi di blocco degli aiuti, è evidente che il governo israeliano, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, stia utilizzando, dallo scorso 2 marzo, l’arma del cibo per costringere i palestinesi di Gaza ad abbandonare la loro terra. È chiaro a tutti che Netanyahu stia assecondando i partiti di estrema destra che lo sostengono e che minacciano di abbandonare l’esecutivo. Un metodo, questo, di punizione collettiva e di guerra "silenziosa": umiliazione e difficoltà a reperire i viveri, prima della cacciata.
L'enclave musulmana è un cumulo di macerie. A Beit Hanoun e Beit Lahiya, e nel quartiere di Shuja’iyya nella parte nord della Striscia, così come a Khirbet Khuza, alla periferia di Khan Younis, gli edifici sono stati demoliti con una percentuale del 75%. La distruzione degli immobili e delle strutture pubbliche si sta rivelando come un progetto studiato e messo in pratica per impedire agli abitanti di Gaza di rientrare nelle proprie case.
Rafah è stata completamente rasa al suolo. L'esercito ha creato una zona cuscinetto e ha eliminato l’unico valico di frontiera con l'Egitto. Non ci sono più centri abitati. A Jabaliya, oltre cinquanta palestinesi sono stati uccisi o dispersi dopo un massiccio bombardamento che ha completamente distrutto un edificio di cinque piani. La maggior parte dei morti apparteneva ad una sola famiglia.
A Khan Yunis, due coniugi lasciano la loro abitazione per andare al lavoro. Sono entrambi medici. Alaa Al-Najjar è pediatra all’Ospedale Al-Tahrir. Era uscita di casa, quella mattina con il marito, il dott. Hamdi al-Najjar. Doveva essere una normale giornata sotto le bombe. Ma l’aviazione israeliana ha sganciato alcuni ordigni colpendo un edificio residenziale a Khan Yunis e distruggendo l’abitazione della famiglia Al-Najjar. Raccapricciante la scena che si è presentata alle squadre della Protezione civile che hanno recuperato tutti e nove i corpi da sotto le macerie, con otto resti smembrati dalla forza dell’attacco. Erano i figli dei coniugi Al-Najjar, con un’età compresa tra i due e i sedici anni.
Sembra che i soldati israeliani uccidano anche con molta noncuranza e questo lo si è potuto verificare da alcuni video in cui i soldati dell'Idf esultano per bombardamenti e altre azioni a Gaza. Vengono in mente gli orripilanti documenti dei terroristi di Hamas che ostentavano quanto compiuto nell’attacco del 7 ottobre. Ma la macabra conta della guerra registra, oramai, quasi settantamila morti, compresi i quindicimila dispersi, e 122mila feriti, non si ferma.
Ma non solo morte e distruzione. Tra ebrei e palestinesi si vanno consolidando la paura e l’odio reciproco sempre più radicato. Un cortocircuito perverso che sta alimentando la sete di vendetta e molta sfiducia. «Una sfiducia che penetra la vita sociale a tutti i livelli. Sarà molto difficile ricostruire la speranza dopo tutto questo, anche perché non si riesce a vedere cosa ci sarà dopo, quando tutto questo terminerà», ha recentemente dichiarato il patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa.
In questo clima di sofferenza, in cui il male la fa da padrone c’è una domanda che circola con insistenza anche tra i pochi cristiani della Terra Santa: “Dov’è Dio?”. Ma è possibile attribuire a Dio l’operato malvagio degli uomini? O quello del governo israeliano ormai senza controllo? Questa assurda guerra ha cambiato radicalmente il volto della Terra Santa, in modo infausto, e in quasi seicento giorni di guerra, la situazione è straziante e disperata.
Difficile prevedere quale sarà il futuro dei palestinesi, ma non solo di quelli di Gaza. Una cosa è certa: «Non spariremo, non ci saranno ‘riviere’ - ha sottolineato il patriarca Pizzaballa -. Bisogna avere la capacità di ricostruire qualcosa che renda almeno sopportabile questa convivenza. Richiederà molto tempo, le ferite sono molte profonde. I tempi di guarigione saranno molto lunghi. Ma non ci sarà guarigione - ha concluso - se non ci saranno medici che indichino la cura, che sappiano orientare».
Sabato scorso, in tutto il paese, sono riprese le manifestazioni antigovernative. La protesta silenziosa contro la guerra che si è svolta all'esterno del cancello sud del quartier generale delle IDF, è stata decisamente più numerosa rispetto alle settimane scorse. In piazza Habima a Tel Aviv, i manifestanti hanno esposto i “soliti” striscioni che chiedevano il rilascio degli ostaggi e la fine della guerra. Denunciavano, anche, le ricadute della guerra sui riservisti, mentre gli studenti ebrei ultraortodossi delle Yeshiva (istituti scolastici dove si studia il Talmud) eludono il reclutamento militare.
Anche tra gli israeliani aumenta la rabbia contro i bambini di Gaza ammazzati dall'esercito israeliano. In Kaplan Street gli attivisti di sinistra sono rimasti in silenzio, tenendo in mano candele e foto di bambini uccisi da Israele a Gaza dopo la ripresa dei combattimenti, il 18 marzo.