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IL VERTICE A BALI

Fra Biden e Xi c'è dialogo, ma anche molti equivoci

La prima stretta di mano fra Xi Jinping e Joe Biden dall’inizio della nuova amministrazione americana è, in sé, un fatto storico. Ma i due leader parlano due lingue diverse anche nei concetti. Possono anche esprimere la stessa posizione formale, su Taiwan e Ucraina, ma la intendono in modi opposti.

Esteri 15_11_2022
Xi Jinping e Joe Biden

La prima stretta di mano fra Xi Jinping e Joe Biden dall’inizio della nuova amministrazione americana è, in sé, un fatto storico.

È avvenuto a Bali, sede del G20. Prima che iniziasse la conferenza delle venti maggiori economie mondiali, i presidenti delle due nuove superpotenze si sono incontrati faccia a faccia. Non era mai successo nel corso degli ultimi due anni, prima a causa del Covid, poi a causa della tensione creata dalla guerra in Ucraina (dove la Cina gioca un ruolo ambiguo) e infine per la nuova crisi di Taiwan, diventata ancora più acuta dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei. Ma cosa portano a casa i due leader? Biden parrebbe fiducioso di aver scongiurato lo scoppio di una seconda guerra fredda “Io credo assolutamente che non ne abbiamo bisogno”, ha dichiarato dopo il vertice durato tre ore. Ma il “non averne bisogno” non implica necessariamente che non scoppi. “C’è posto sia per la Cina che per gli Usa”, ha sottolineato anche Xi, pur senza specificare quale posto voglia occupare la sua nazione nel mondo. I due leader paiono parlare due lingue profondamente differenti, anche quando dicono la stessa cosa, le danno due significati opposti.

La divergenza più ampia è e resta quella su Taiwan. Per Xi Jinping, l’isola che considera una sua “provincia ribelle” è la vera “linea rossa” nelle relazioni fra Pechino e Washington. La linea rossa che non deve essere varcata è quella della dichiarazione di indipendenza formale di Taipei. Xi ha ribadito, durante il vertice, che una secessione anche proclamata (di fatto Taiwan è già del tutto indipendente, anche se non riconosciuta a livello internazionale) sarebbe “incompatibile con la pace e la stabilità nello stretto di Taiwan, tanto quanto il fuoco lo è con l’acqua”. Usando espressioni abbastanza poetiche, come suo solito, Xi ha espresso un concetto molto bellicoso: se Taiwan dichiara l’indipendenza, accendendo un metaforico incendio, la Cina è pronta a spegnerlo. Come, è facile intuirlo, viste le continue esercitazioni militari nello stretto che separa l’isola dalla Cina continentale.

Dal canto suo, Biden ha sottolineato che gli Usa proseguiranno con la loro politica dell’Unica Cina, adottata dal 1979, in base alla quale riconoscono solo Pechino come unico governo legittimo su tutto il territorio cinese, Taiwan inclusa. Biden lo ha dovuto ribadire perché in ben quattro occasioni, da quando è presidente, ha ammesso l’intenzione di intervenire militarmente in difesa dell’isola, in caso di invasione cinese. In questo vertice di Bali si è limitato ad auspicare che la completa riunificazione avvenga in modo pacifico e rispettando le volontà delle due parti.

Di fatto, i due presidenti esprimono solo formalmente lo stesso concetto: Taiwan “non esiste”, è parte della Cina il cui governo è quello comunista di Pechino. Ma gli danno due significati diversi: gli Usa auspicano una riunificazione pacifica e consensuale, mentre non ammetterebbero mai un’invasione; la Cina mira alla riunificazione, se necessario anche con la forza. Questo malinteso di fondo è destinato a perpetuarsi, anche dopo il vertice di Bali. Ed è la più grave causa di attrito fra le due superpotenze del Pacifico, il casus belli più probabile.

I due presidenti hanno poi discusso della guerra in Ucraina e delle possibili azioni della Russia. Secondo il resoconto statunitense, Cina e Usa si sarebbero impegnate a scongiurare l’escalation nucleare. I due leader hanno concordato sul fatto che “una guerra nucleare non dovrebbe mai essere combattuta e non può mai essere vinta e hanno sottolineato la loro opposizione all'uso o alla minaccia di uso di armi nucleari in Ucraina”. Ma nel resoconto cinese non si trova lo stesso concetto, non si parla neppure di guerra nucleare: Xi ha ribadito il sostegno della Cina ai negoziati di pace tra la Russia e l'Ucraina e ha espresso la speranza che gli Stati Uniti, l'Unione Europea e l'Organizzazione del Trattato Nord Atlantico avviino colloqui globali con Mosca. La contrarietà cinese alle armi nucleari è stata espressa in due differenti occasioni, dall’inizio del mese, prima per bocca dello stesso presidente Xi Jinping: “La Cina dice no a ogni minaccia di uso militare dell’arma nucleare in Eurasia”; poi da parte del premier Li Keqiang: “Le minacce nucleari sono irresponsabili”. Tuttavia, anche sulla questione ucraina, i due presidenti parlano linguaggi diversi. Per Biden è importante ottenere che la Cina prema su Putin perché fermi la guerra e per scoraggiare l’escalation nucleare, auspica che anche Pechino opponga il suo deterrente. Ma per Xi la prospettiva è evidentemente rovesciata: auspica che siano gli occidentali (Usa, Nato e Ue) ad avviare un negoziato con Mosca, per fermare la guerra e dunque scongiurare anche il pericolo nucleare.

Senza troppe speranze di ottenere concessioni, Biden ha anche discusso sulla violazione dei diritti umani: sull’arresto degli oppositori ad Hong Kong e sulla persecuzione degli uiguri nello Xinjiang. Il presidente americano ha espresso pubblicamente la sua preoccupazione sulle due questioni e almeno ha mostrato al mondo di non essere un cinico realista.

All’atto pratico, l’incontro si conclude con la promessa di altri incontri fra i due governi, a tutti i livelli. Prossimamente il Segretario di Stato Antony Blinken si recherà in Cina. Per lo meno la linea di dialogo non è interrotta. Non c’è aria di confronto militare. Ma resta l’impressione che le due parti non si capiscano.