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INCHIESTA SU MANZONI / 5

È davvero esistito don Abbondio? Le tracce in un salotto...

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Il pavido curato de I promessi sposi è un personaggio del tutto inventato o è realmente esistito? Una traccia la si trova in un libro sul famoso salotto della contessa Maffei, ai cui incontri prendeva parte lo stesso Manzoni.

Cultura 20_02_2023
Francesco Gonin (1808-1889) - edizione del 1840 dei Promessi Sposi

Il primo personaggio che entra in scena ne I promessi sposi è il parroco di «una delle terre» del lecchese. Nel manoscritto non si fa cenno al paese né tantomeno al casato del prete. Figura abitudinaria, la sera del 7 novembre 1628 don Abbondio recita «tranquillamente il suo ufizio», procedendo con lentezza. Apre e chiude il breviario, tenendo il segno con l’indice della mano destra, calcia i ciottoli che incontra lungo la via, alza e abbassa lo sguardo come per guardare circospetto se ci siano novità.

La descrizione degli atti esteriori del personaggio serve a Manzoni per rappresentare la sua interiorità, il suo carattere. Don Abbondio desidera una vita sempre piana, diritta, senza impacci e impicci; pigro e chiuso nell’animo, non si stupisce delle meraviglie che ha attorno, ma procede rinchiuso nella sua grettezza. Rigido censore di chi non si comporta come lui, è convinto sostenitore della tesi che «a un galantuomo che si fa i fatti suoi, non capitano cattivi incontri». Prete non certo per vocazione, ma per convenienza, si è costruito una filosofia di vita improntata sull’evitare «i contrasti, e nel cedere, in quelli che non» può scansare. La sua posizione è di «neutralità disarmata» di fronte alle guerre che scoppiano davanti a lui.

La sera del 7 novembre, però, la realtà ribalta le sue convinzioni demolendo il fortino che ha innalzato per vivere tranquillo e non incorrere in pericoli. Proprio lui, che ha sempre badato a non infastidire i potenti, che ha sempre difeso don Rodrigo dalle accuse di essere un sopraffattore, fa l’amara scoperta che esistono imprevisti che stravolgono le nostre certezze sull’esistenza distruggendo le tane e i nascondigli più reconditi. Mentre sta leggendo un breviario, don Abbondio incontra due bravi che ostentano tanta spavalderia. Il curato appare come un topo che cerca di trovare una via di fuga, ma si avvede di non avere scampo.

Manzoni parlò mai con amici o conoscenti della possibile origine di questo curato, di solito presentato solo come figura d’invenzione del Seicento, non certamente storica? C’è un testo in cui compaiono le chiacchiere e le confidenze del romanziere? Il giornalista e direttore di giornali Raffaello Barbiera ne raccontò molte ne Il salotto della Contessa Maffei, saggio pubblicato per la prima volta nel 1895, che riscosse un grande successo, tanto che raggiunse la sua quarta ristampa nello stesso anno. Il salotto di Clara Maffei a Milano era il più importante in Italia nell’Ottocento, perché vi si radunavano intellettuali, artisti e pensatori italiani di prim’ordine e diveniva luogo di incontro fondamentale anche per scrittori europei di passaggio dal nostro Paese. La contessa Maffei, affabile e di grande carisma, era espertissima nel creare un luogo di accoglienza e di raffinatezza in cui le idee potessero trovare spazio di espressione e di comunicazione. Una miriade di personaggi, maschili e femminili, animava il salotto. Non possiamo qui non menzionare Honoré de Balzac, Verdi e Manzoni, assiduo frequentatore e grande amico della contessa.

Nel Salotto di Clara Maffei, Barbiera scrive: «Quel disgraziato servo dell’altare [si sta riferendo a don Alessandro Bolis] era la favola di tutto il territorio per la sua pusillanimità. Bastava che qualcuno alzasse la voce e tremava. Si raccontano molti episodi che una specie di "bravi" (certi giovinastri dei dintorni) gli infliggevano, comandandogli questo e quello, per ridere allegramente alle sue spalle».

Manzoni, che nutriva grande ammirazione per l’amico poeta Carlo Porta, abilissimo nel creare tipi umani vivi, diede a sua volta vita alla figura di don Abbondio traendo ispirazione da don Alessandro Bolis, parroco di Germanedo, paesino distante pochi chilometri da Lecco. Manzoni convertì il nome in Abbondio: un nome molto diffuso nel comasco dal momento che sant’Abbondio è il patrono di Como. Don Alessandro Bolis, morto nel 1832, molto probabilmente non seppe mai di essere fonte d’ispirazione del personaggio manzoniano, poiché non era amante di libri e gran lettore.

Di certo Manzoni, pur ispirandosi alla realtà, creò uno dei personaggi più riusciti della letteratura. Pensiamo a quando il curato, vedendo i bravi, cerca disperatamente di evitarli e inizia così a recitare come un abile attore negli istanti prima di incontrare i bravi: affretta il passo, alza il tono della voce quando declama i versetti per infondersi coraggio, proprio come i bambini quando sono soli e spaventati o in luogo buio. Poi, parlando con i bravi, il prete accusa Renzo e Lucia di aver scelto di sposarsi soltanto perché la giovane è rimasta incinta; accusa del tutto falsa. Chi mai tra i lettori prenderebbe le difese di un prete come don Abbondio? Chi s’identificherebbe con lui, con il suo atteggiamento pavido dinanzi ai bravi e alle loro minacce?

Don Abbondio appare come un coniglio, eppure, come scrive mirabilmente Pirandello nel saggio L’umorismo (1908): «Bisogna pure ascoltare, signori miei, le ragioni del coniglio! […] Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio. Ma noi sappiamo che Don Rodrigo, se minacciava, non minacciava invano, sappiamo che pur di spuntare l’impegno egli era veramente capace di tutto; sappiamo che tempi eran quelli, e possiamo benissimo immaginare che a don Abbondio, se avesse sposato Renzo e Lucia, una schioppettata non gliel’avrebbe di certo levata nessuno, e che forse Lucia, sposa soltanto di nome, sarebbe stata rapita, uscendo dalla chiesa, e Renzo anch’egli ucciso. A che giovano l’intervento, il suggerimento di Fra Cristoforo? Non è rapita Lucia dal monastero di Monza? C’è la lega dei birboni, come dice Renzo. Per scioglier quella matassa ci vuol la mano di Dio; non per modo di dire, la mano di Dio propriamente. Che poteva fare un povero prete?».

Per questo motivo don Abbondio non è una figura comica. Lo sarebbe se avesse paura di tutto senza motivo: «Il pauroso è ridicolo, è comico, quando si crea rischi e pericoli immaginari» (Pirandello). Ma se il pavido ha davvero ragione a nutrire paura, allora non è più comico soltanto, non desta più la risata a crepapelle, irrefrenabile e irrispettosa. Nello spettatore, nel lettore sorge la riflessione che permette di comprendere come mai il personaggio si comporti in quel modo. Dalla comicità pura attraverso il filtro della riflessione che permette di capire le ragioni profonde si passa all’umorismo (ovvero il sentimento del contrario).