Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Monica a cura di Ermes Dovico
revanscismo

Draghi e Gentiloni, la retorica anti-Usa degli euro-ideologi

Ascolta la versione audio dell'articolo

Prendono atto della marginalizzazione del Vecchio Continente ma le loro soluzioni ripetono ostinatamente il "peccato originale" alla base dell'Ue: l'eterno complesso di inferiorità e il senso di rivalsa contro l'America. Se l'Europa è debole non è colpa di Trump.

Editoriali 27_08_2025

Da qualche tempo imperversa con particolare insistenza, nel mondo politico e mediatico italiano, una figura molto singolare: l'europeista fintamente auto-critico. Una figura che, negli ultimi giorni, ha preso con particolare risalto le sembianze di due personaggi di tutto rilievo, con importanti cariche di potere alle spalle nell'ambito sia nazionale che dell'Unione europea: Mario Draghi, ex governatore della Banca centrale Ue ed ex presidente del Consiglio, e Paolo Gentiloni, anche lui ex premier ed ex commissario europeo.

Sia il primo che il secondo, in interventi pubblici recenti (rispettivamente nel discorso tenuto al Meeting di Rimini, e in un editoriale su Repubblica), hanno preso atto di una realtà che è sotto gli occhi di tutti: la crescente marginalizzazione dell'Europa nella politica internazionale. Ma hanno tratto da questa presa d'atto conclusioni non coerenti.

La subalternità europea era già evidente da decenni: da quando, cioè, l'età della globalizzazione è sfociata in un equilibrio mondiale multipolare tra grandi "blocchi" economici e politici, rispetto al quale il vecchio continente, nonostante la massiccia dose di retorica auto-incensatoria profusa continuamente dalle sue classi dirigenti per esaltare il progetto di Unione partito con il trattato di Maastricht nel 1992, appariva sempre più come il classico vaso di coccio in messo a quelli di ferro, di manzoniana memoria.

Ma essa si è imposta anche ai più caparbi sostenitori delle "magnifiche sorti e progressive" della costruzione comunitaria negli ultimi mesi, a partire dalla vittoria elettorale di Donald Trump e dall'inizio dirompente del suo secondo mandato alla Casa Bianca.  L'approccio deciso  con cui Trump ha intrapreso il processo di pace per cercare di fermare il conflitto russo-ucraino negoziando direttamente con Putin e scavalcando tutte le pretese e perplessità degli alleati europei; l'offensiva dei dazi anche nei confronti degli stessi europei, che ha condotto a un accordo tariffario visto da molti osservatori del vecchio continente come il cedimento a un atto di forza; l'imposizione ai membri europei della Nato di un impegno a raggiungere il 5% del loro Pil in spese militari nell'Alleanza, accantonando ogni velleità di un fantomatico, futuro esercito dell'Unione: tutto questo ha  fatto saltare i nervi a tutti i retori "euro-lirici" e ha mandato all'aria ogni loro risorsa retorica.

Che le democrazie europee siano sempre state, dalla fine della seconda guerra mondiale, del tutto subordinate a Washington non è certo un mistero. Soltanto l'intervento americano nel conflitto, e poi l'impegno militare, politico ed economico americano nei decenni della guerra fredda, consentì di salvare il patrimonio di libertà della storia europea, di ricostruire le sue istituzioni difendendole dal comunismo sovietico, di creare le condizioni per il boom economico che ha reso i Paesi dell'Europa occidentale tra i più ricchi del mondo, e anche di costruire istituzioni comunitarie, promosse da leader illuminati come De Gasperi, Adenauer e Schuman.

Le ambizioni di far compiere alla Comunità europea un salto di qualità trasformandola in una compagine politica a tutti gli effetti, concepite dalle classi politiche del continente a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, erano ancora tutte inscritte nel rapporto inscindibile di partnership tra le due sponde dell'Atlantico. Ma, nel periodo del declino e della fine della guerra fredda, esse vennero interpretate equivocamente da parte di alcune componenti di quelle classi dirigenti – soprattutto quelle di sinistra "orfane" del modello sovietico – come la costruzione di una "terza forza" e di una "terza via" tra il modello delle democrazie di mercato occidentali e quello del collettivismo marx-leninista, e poi di una potenza in proprio, autonoma da Washington.

Fu questa la hybris, fu questo il "peccato originale" alla base del progetto dell'Ue. Un'aspirazione esagerata, perché alimentata da un sentimento "revanscista" nei confronti degli Usa, derivante dalla frustrazione e dal complesso di inferiorità accumulato da quando la civiltà per secoli quasi padrona del mondo intero era stata scavalcata dal popolo d'oltreoceano da essa originato. E che si faceva forte del mito di una presunta superiorità del modello economico "misto" keynesiano, fondato su alta pressione fiscale, welfare universale e ampio intervento statale, rispetto al capitalismo "sregolato" americano. Fondandosi su quell'ambizione e su quel mito l'Ue, anche attraverso la tappa decisiva dell'unione monetaria, ha costruito nell'ultimo trentennio non un conglomerato in grado di diventare "locomotiva" dell'economia globalizzata esaltando le libertà individuali, ma un edificio istituzionale verticistico affidato a élite insindacabili e dalle pretese tecnocratiche, in cui la sovranità dei popoli e la democrazia sono state relegate in un angolo; e un'economia soffocata dalla iper-regolamentazione, dalla burocrazia del "superstato", da reciproci veti corporativi.

Mentre le economie asiatiche catalizzavano la produzione industriale e la invadevano con le loro esportazioni, e mentre gli Stati Uniti mantenevano la loro competitività grazie agli enormi progressi delle Big Tech, l'Europa si riduceva, per sopravvivere, a una "Cina di riserva", con  produzioni export-oriented e bassi salari. Spalancava le porte a una immigrazione selvaggia che in breve tempo ne ha minato la coesione culturale e sociale, esaltando i conflitti e ponendo a rischio le democrazie che la compongono. Allentava la sua fedeltà alla causa occidentale legandosi, spregiudicatamente, a Cina, Russia, Paesi islamici anche estremisti pur di fare affari.

Il "richiamo all'ordine" da parte americana, partito sotto la presidenza Biden con il boicottaggio della "Via della Seta" cinese e poi con l'inizio della guerra russo-ucraina, non è stato allora il frutto di un destino "cinico e baro", bensì la logica conseguenza di una politica relativista, senza bussola, da "mosche cocchiere", inevitabilmente destinata ad infrangersi contro la realtà dei nuovi equilibri del mondo post-globale.

Ma le élite del vecchio continente non sembrano ancora, in gran parte, aver capito la lezione che la storia recente ha impartito loro, e continuano ad essere animate da pretese senza fondamento, nutrite dalle succitate frustrazioni da potenza in declino, e spinte da una sorda, immotivata ostilità verso gli Stati Uniti che oggi si appunta in primo luogo su Trump, dipinto come "cattivo" a prescindere, e considerato responsabile primo dei mali europei.  Lo dimostra, tra l'altro, il fatto che i "finti autocritici" come Draghi o Gentiloni (e innumerevoli commentatori orientati nello stesso senso) propongono "soluzioni" alle difficoltà presenti che sono invece in continuità con gli stessi ostinati errori che le hanno prodotte.

Draghi propone ulteriore accentramento delle risorse fiscali, ulteriore debito e spesa comuni, laddove i Paesi europei avrebbero bisogno di meno fisco, più libertà, più incidenza della volontà popolare a livello nazionale e sovranazionale. Gentiloni suggerisce meno "adulazione" in politica estera nei confronti degli Stati Uniti, laddove la storia degli ultimi decenni dimostra come soltanto in una prospettiva di integrazione transatlantica e occidentale l'Europa può trovare un ruolo solido in un mondo tanto diviso e agitato.

Insomma, non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Le classi dirigenti europee con il complesso dei "fratelli maggiori" di Washington continuano a spiegare i problemi del continente con formule auto-assolutorie analoghe a quella che molti hanno applicato ostinatamente per spiegare i fallimenti dei regimi comunisti: hanno fallito perché non sono stati abbastanza comunisti. Ma se l'Europa ha fallito non è perché non è stata abbastanza "autonoma" o antiamericana; è perché non è stata abbastanza convintamente occidentale.



il caso

Draghi, lezioncina contro la stagnazione che ha creato

20_03_2025 Ruben Razzante

Draghi dimentica il suo passato: è stato lui, con altri tecnocrati europei, a promuovere politiche di austerità che hanno compresso la crescita e i salari per anni, contribuendo alla stagnazione economica che oggi dice di voler combattere.

La lettera

Mondana e alla Draghi, ecco l’UE sognata da Zuppi e Crociata

10_05_2024 Stefano Fontana

Nella loro “Lettera all’Unione Europea”, il cardinale Zuppi (Cei) e monsignor Crociata (Comece) parlano dell’UE come un sogno. Un europeismo, il loro, pre-religioso, che diventa criterio per valutare la stessa fede cristiana. Sembra di leggere il Rapporto Draghi.

IL RITRATTO

Mario Draghi, il liberal-socialista. Vuole più Stato per l'Europa

22_04_2024 Maurizio Milano

I discorsi di Mario Draghi sono inequivocabili. Di impostazione liberal-socialista, l'ex premier, già presidente della BCE, vuole uno Stato unitario europeo, con debito comune. Priorità alla transizione verde, alla transizione digitale e anche al riarmo.

super-stato

L'Europa di Draghi: molta "Unione" e poco "europea"

17_02_2024 Stefano Fontana

Nella visione politica dell'ex premier prevalgono accentramento e transizione green. A scapito della vera forza del nostro continente: la sua identità.