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REPUBBLICA ISLAMICA

Dopo tre mesi di proteste in Iran, il regime è in crisi

Sono ormai 100 giorni di protesta continua in Iran, contro la repressione del regime islamico. Non è solo una "rivolta delle donne", anche se sono le donne a costituirne il primo motore. Il regime risponde con una dura repressione che non risparmia nessuno, né i bambini, né il campione di calcio Daei. Ma Teheran mostra le prime crepe. 

Esteri 28_12_2022
Iran in rivolta

Mentre il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, riferendosi alle proteste antigovernative nel Paese, dichiarava, “non mostreremo misericordia ai nemici”, le autorità iraniane ordinavano ad un volo della Mahan Air, da Teheran a Dubai, di atterrare bruscamente sull’isola di Kish. Sul volo c’erano moglie e figlio di Ali Daei, personaggio molto noto in Iran, ex capitano della nazionale di calcio del Paese, considerato uno dei più grandi calciatori asiatici di tutti i tempi. Daei, negli ultimi mesi, si era guadagnato l’inimicizia del governo di Teheran per aver pubblicamente espresso solidarietà per le proteste. A inizio dicembre, le autorità gli avevano chiuso un ristorante e un negozio di sua proprietà, dopo che aveva deciso di aderire allo sciopero generale in favore dei manifestanti, oltre ad averlo privato del passaporto. Ma prima ancora, Daei si era rifiutato di partecipare, come ospite, ai Mondiali di calcio in Qatar, per protesta. Adesso alla moglie e al figlio è stato impedito di abbandonare il Paese, anche solo per turismo. 

Il 24 dicembre è caduto il centesimo giorno di proteste in Iran dopo l’omicidio di Mahsa Amini colpevole di “mal velo”. Da metà settembre il Paese non ha mai assistito ad un solo giorno di tregua. Le manifestazioni procedono senza soluzione di continuità. Al grido “Morte al dittatore” centinaia di migliaia di iraniani stanno minacciando la stabilità del regime di impostazione islamica sciita che da 43 anni guida e controlla la Repubblica nata dalla Rivoluzione islamica contro lo scià Mohammad Reza Palhavi. Le proteste, senza una regia precisa, e senza leader, hanno coinvolto almeno 80 città. Secondo le Nazioni Unite più di 14.000 persone sono state arrestate tra i manifestanti. Secondo Human Rights Activists in Iran, un gruppo che monitora le proteste nel Paese, dietro le sbarre sono in più di 18.000. Oltre 500 manifestanti sono stati uccisi.

Da metà settembre, l’Iran ha imposto la pena di morte a undici persone e ne ha giustiziate due. Ci sono sempre più condanne sommarie e i processi durano all’incirca una decina di minuti. Chi viene condannato è perché accusato di aver intrapreso una “guerra contro Dio”, per la shari’a, e la legge islamica, vuole dire  pena di morte.

Se il governo di Teheran insiste con la narrazione per cui il Paese è solo vittima di una rivolta orchestrata da Stati Uniti e Israele, non si può, allo stesso banalizzare ulteriormente le proteste immaginando che a muovere i manifestanti sia solo la solidarietà al mondo femminile. Non è una rivoluzione al femminile, ma la liberazione del Paese passa attraverso le donne. Quando Khomeini conquistò il potere, la prima misura che introdusse fu che le donne si coprissero, una regola pensata per soggiogare tutta la società. L’uccisione della ventenne a settembre è stata solo la miccia per un contesto sociale fortemente esasperato  dalla crisi economica e alimentare di Teheran.

E niente sembra capace di fermare il coraggio delle manifestazioni. Nonostante i resoconti dei social media - ormai una sorta di organo ufficiale delle proteste - riferiscano che persino dei bambini siano stati arrestati a scuola dalle forze di sicurezza arrivate in furgoni senza targa: in Kurdistan già ad ottobre tutte le scuole e gli istituti di istruzione sono stati chiusi dalle autorità. Per i bambini non ci sono solo gli arresti, ma anche la morte. Il 25 dicembre una dodicenne è stata uccisa con la sua famiglia a Bastak, sud del Paese, mentre era ad un posto di blocco con la sua famiglia: le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro l’auto e a pagare con la vita è stata la bambina. Il padre è stato costretto a registrare un video in cui afferma che l’uccisione di sua figlia non è in nessun modo correlata alle proteste. Poche settimane prima, la medesima dinamica ha coinvolto un bambino di nove anni mentre era in macchina con la famiglia a Izeh. Il governo ha provato ad incolpare i manifestanti, ma è stata la madre del bambino a raccontare quel che è accaduto davvero. 

A Teheran, e in tutte le grandi città, c’è un’atmosfera di terrore e i giovani vengono rapiti per impressionare altri manifestanti. Il governo appare tremendamente scosso e la repressione è sempre più forte, ma il punto di rottura, o di ribaltamento, ancora non è stato superato. Questo potrebbe accadere solo se ci fosse un’aggregazione di collera organizzata con manifestazioni di massa, come accadde contro lo Scià nel 1979 che portò ad una vera rivoluzione.

Per questa ragione non vanno ignorati i segnali dall’interno che denunciano come il regime inizi ad esser meno temuto: una delle sorelle del leader supremo Ali Khamenei, a inizio dicembre, ha pubblicato una lettera aperta contro il governo esprimendo vicinanza ai manifestanti, qualcosa di impensabile già solo di un paio di mesi fa. Anche l’ex presidente iraniano, Mohammad Khatami, oggi settantanovenne, sostiene le ragioni della protesta. Non solo ha definito “bello” lo slogan “donna, vita, libertà”, ma ha invitato le autorità ad ascoltare “prima che sia troppo tardi”. 

Un  altro elemento di debolezza che oggi la Repubblica islamica di Teheran manifesta è nei due eserciti che di fatto coesistono all’interno del Paese e che si fanno sottilmente la guerra. Da una parte ci sono i Guardiani della rivoluzione islamica, meglio noti come Pasdaran - plurale della parola pasdar che, in persiano, significa “colui che veglia”. Rappresentano una struttura fondamentale dell’Iran contemporaneo perché non sono solo un contingente fondamentale di difesa, ma un simbolo molto importante: sono nati all’indomani della Rivoluzione islamica del 1979 come completamento delle forze armate tradizionali. I Pasdaran rispondono direttamente alla Guida suprema, oggi Ali Khamenei, e i loro compiti sono rivolti alla gestione dell’ordine pubblico interno: negli anni si sono talmente radicalizzati e irrigiditi che qualcuno ipotizza potrebbero persino scavalcare il “clero" islamico. Ahmadinejad, Mohsen Rezai, Mohammad Baqer Qalibaf, sono state molte le personalità di rilievo che da Pasdaran sono diventate sindaci o presidenti.

Dall’altra parte c’è l’esercito che non hai mai nutrito simpatia per i pasdaran (e viceversa). Appena dopo la rivoluzione del 1979 molti ai vertici dell’esercito vennero rimossi con l’accusa di “essere stati addestrati dagli occidentali”. Come allora, ancora oggi i Guardiani della rivoluzione non si fidano dell’esercito colpevole di aver simpatizzato, un tempo, per lo scià. L’Iran International a metà novembre pubblicava in esclusiva un documento che dimostrerebbe come alcuni membri dell’esercito iraniano avrebbe sostenuto le proteste antigovernative. Se dovesse essere confermato, non sarebbe un dettaglio per il governo di Raisi che comunque continua a massacrare i giovani dissidenti. Ma come mai tutto ciò fa così poca notizia in Occidente?