Israele, bloccati i conti del Patriarcato ortodosso di Gerusalemme
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I cristiani sempre più nel mirino delle autorità israeliane, tentativi anche di espandere una colonia occupando i terreni di un monastero ortodosso vicino Gerico. Intanto prosegue l'occupazione di Gaza City. Proteste per il via libera alla colonia che spaccherà in due la Cisgiordania.
- INTERVISTA. Suor Aziza: solo il Signore può intervenire, di Elisa Gestri

Dopo Gaza ora Israele prende di mira i cristiani di Gerusalemme. Per ora soltanto i cristiani ortodossi. Con una decisione a sorpresa sono stati bloccati i conti bancari del Patriarcato Ortodosso di Gerusalemme. Un provvedimento adottato dalle autorità che viola in modo palese lo status quo, un patto secolare che risale al 1852 e che regola la gestione dei luoghi sacri, oltre a stabilire i diritti e i doveri delle varie confessioni religiose, che comprendono i greco-ortodossi, i latini, gli armeni, i francescani, i copti, gli etiopi e altri piccoli culti cristiani, in modo che ognuno possa esercitare le proprie funzioni liturgiche e amministrative in un contesto di reciproco rispetto.
Non è comunque la prima volta che le autorità israeliane tentano di ostacolare la presenza dei gruppi cristiani. Tra gli ultimi episodi va segnalata la pretesa di espandere una colonia, sorta come sempre contro il diritto internazionale, occupando i terreni del monastero ortodosso di San Gerasimo (Deir Hijla), vicino a Gerico, uno degli insediamenti cristiani più antichi di tutta la Terra Santa.
Come da consuetudine, l’occupazione segue un certo rituale: prima viene issata sul terreno la bandiera israeliana, vi si abbandonano dei bancali in legno, qualche sedia e altre cianfrusaglie, quel terreno, da quel momento, diventa di proprietà dei coloni.
Così fece, nel lontano 2001, un gruppo di ebrei ultraortodossi che vi si insediò denominando quel nuovo villaggio abusivo Machana Nevo proprio alle porte del monastero preso di mira oggi dai coloni. Ora sono circa quaranta le abitazioni, per lo più casette prefabbricate.
«Queste azioni fanno parte di una politica sistematica finalizzata a eliminare la reale presenza cristiana in Palestina e a privare questi territori delle loro istituzioni religiose storiche», afferma il Comitato Superiore per gli Affari Ecclesiastici della Palestina. È stato inoltre fatto un appello alle Chiese e alle istituzioni cristiane di tutto il mondo affinché intraprendano «azioni politiche, legali e mediatiche immediate per fermare queste violazioni e difendere la libertà delle Chiese di svolgere la loro missione spirituale e umanitaria. Proteggere le Chiese in Palestina – si legge nella dichiarazione del Comitato - è una responsabilità comune e un’eredità storica».
Negli ultimi anni, le Chiese di Gerusalemme Est occupata hanno dovuto far fronte ad una massiccia richiesta di tasse da parte d’Israele, contemporaneamente le autorità sono accusate di permettere a gruppi di coloni di impossessarsi dei beni ecclesiastici, anche nella zona di Porta di Giaffa, nella città vecchia.
Se a Gaza City è stato nel frattempo impartito l’ordine di occupare la città ed evacuare un milione di abitanti verso sud, in Cisgiordania dilagano le azioni punitive da parte dei coloni ultraortodossi che prima distruggono, e poi cacciano i residenti dalle loro abitazioni. C’è rabbia e preoccupazione tra gli abitanti della Cisgiordania per la recente approvazione da parte del governo israeliano di realizzare la costruzione di circa 3400 nuove abitazioni, che spaccherà in due la Palestina, spazzando via, in modo definitivo, la proposta “Due stati due popoli”, rendendo così carta straccia gli accordi di Oslo. Il tutto per realizzare il grande sogno del primo ministro Benjamin Netanyahu, rimasto fino ad oggi nel cassetto, della Grande Gerusalemme, incorporando nel territorio gerosolimitano le colonie israeliane sul suolo della Cisgiordania, in direzione sud-est. Progetto che in passato era già stato bloccato dagli Stati Uniti, perché ritenuto un grande ostacolo per la pace in Medio Oriente. Oggi, l’America di Donald Trump, dopo aver cambiato parere, invece appoggia indirettamente questa nuova provocatoria iniziativa.
Mentre i carri armati israeliani sono alle porte di Gaza City e stanno accerchiando, a tenaglia, la città, gli aerei e l’artiglieria sganciano bombe senza risparmio, su quello che è ancora rimasto in piedi, dopo quasi due anni di guerra, per agevolare il lavoro delle ruspe, che dovranno spianare la strada ai soldati, a loro volta preceduti dai mezzi corazzati. Nella sola giornata di ieri sono state ammazzate oltre trenta persone. L’operazione “I Carri di Gedeone 2” è iniziata incurante, ancora una volta, degli appelli delle cancellerie. Che al governo israeliano non importi nulla del futuro dei palestinesi di Gaza lo dice chiaramente uno dei ministri più influenti ed ascoltati del governo Netanyahu, l’ultraortodosso responsabile del ministero delle Finanze, Bezalel Smotrich: «Abbiamo ordinato di fare un’operazione rapida. Possono assediarli subito. Chi non evacua, va accerchiato. Senza acqua, senza elettricità, possono morire di fame o arrendersi. Questo è ciò che vogliamo e noi siamo in grado di farlo».
E nella Striscia si continua a morire anche per fame. Integrated Food Security Phase Classification (Ipc), un organismo sostenuto dalle Nazioni Unite, responsabile del monitoraggio della sicurezza alimentare, ha reso pubblica una nota in cui si rileva che qualsiasi ulteriore ritardo, anche di pochi giorni, si tradurrebbe in un’escalation totalmente inaccettabile della mortalità legata alla carestia. Ma per il primo ministro Netanyahu quanto affermato dall’organismo delle Nazione Unite non corrisponde al vero: «Il rapporto è falso e si basa su dati parziali e di parte e su informazioni superficiali provenienti da Hamas, un’organizzazione terroristica». Perché allora non dare la possibilità ai giornalisti stranieri di entrare nella Striscia e verificare chi dice la verità?
Sabato scorso, migliaia di persone si sono radunate a Tel Aviv e in tutto Israele per le consuete proteste settimanali, chiedendo al governo israeliano di trovare un accordo con Hamas per garantire il rilascio degli ostaggi e un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza; contemporaneamente alcune migliaia di dimostranti, sia arabi che ebrei, si sono radunate per una manifestazione contro la guerra.
Alcuni interrogativi, che oggi, lunedì, dopo 689 giorni, non trovano ancora risposta. Perché gli Stati arabi rimangono in silenzio, rilasciando solo sporadicamente delle dichiarazioni? È più importante non mettere in discussione gli “Accordi di Abramo” o salvare la vita a milioni di palestinesi? Perché l’Unione Europea, tanto attenta alla guerra tra Russia e Ucraina, non commina alcuna sanzione ad Israele? L’unica e solitaria voce che continua ad alzarsi è quella di papa Leone XIV che sabato 23 agosto, riferendosi alla vicenda della restituzione delle Isole Chagos alla Repubblica di Mauritius, ha ribadito un principio valido anche per la situazione in Medio Oriente: «Tutti i popoli, anche i più piccoli e i più deboli, devono essere rispettati dai potenti nella loro identità e nei loro diritti, in particolare il diritto di vivere nelle proprie terre; e nessuno può costringerli a un esilio forzato».