#dilloinitaliano per salvarci dagli attentati alla lingua
Ha avuto un successo sorprendente (e confortante) ìl’appello via Internet #dilloinitaliano lanciato in occasione del convegno “La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi”. Situato sulla piattaforma telematica internazionale change.org, l’appello ha raccolto finora quasi 79 mila firme.
Ha avuto un successo sorprendente (e confortante) l’appello via Internet #dilloinitaliano lanciato in occasione del convegno “La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi”, svoltosi a Firenze nel febbraio scorso per iniziativa dell’Accademia della Crusca, di Coscienza Svizzera/Gruppo di studio e di informazione per la Svizzera Italiana e della Società Dante Alighieri. Situato sulla piattaforma telematica internazionale change.org, l’appello ha raccolto finora quasi 79 mila firme di consenso.
Presa da Annamaria Testa, un nome noto nel mondo della pubblicazione pubblicitaria, l’iniziativa mette lodevolmente a tema una questione che infatti non è specificamente letteraria, ma ha anzi un immediato rilievo socio-economico. Nel mondo globalizzato in cui viviamo è più che mai importante giocare con fermezza la carta della propria identità culturale, e quindi della propria lingua. Occorre perciò fra le altre cose non lasciarsi trascinare verso forme di pseudo-plurilinguismo subalterno, da lettori di istruzioni per l’uso e niente più. Da un tale declino derivano danni di tipo culturale, e quindi a lungo andare di tipo economico, che vanno evitati ad ogni costo. Non è strano, ma anzi molto logico – osserviamo per inciso -- che Coscienza Svizzera, l’ente ticinese co-promotore del convegno di Firenze di cui si diceva, sia un centro di studi e ricerche per lo più in campo socio-economico presieduto non da un letterato bensì da un noto economista come Remigio Ratti.
Nella sua esperienza plurisecolare di caso di successo di Paese plurilingue, la Svizzera ha anticipato problemi e maturato esperienze in materia di identità linguistica, di politica delle lingue e di plurilinguismo che oggi diventano di utile paragone per il resto dell’Europa; e in primo luogo per l’Italia, che è particolarmente povera di competenze in materia. Oggi più che mai il dominio della propria lingua materna è necessario anche quale base per un buon apprendimento di altre lingue: un processo che tra altro a mio avviso per avere successo dovrebbe partire innanzitutto dalle lingue del vicino (nel nostro caso il francese, il tedesco ecc.) per giungere infine all’inglese, sempre più necessario, ma anche sempre meno sufficiente. All’ombra della povertà di competenze di cui si diceva, aggravata dalla provinciale pretesa di risolvere tutto giocando solo la carta dell’inglese, già da oltre vent’anni è invece in atto nel nostro Paese un vero e proprio processo di inquinamento della lingua provocato da un’adozione maldestra di parole straniere, per lo più inglesi, che va molto al di là dell’inevitabile e del necessario.
Fino a qualche anno fa l’alluvione di anglicismi trovava argine soltanto nella Svizzera italiana. Passata la frontiera si poteva tirare il fiato: la valanga di insegne di negozi e di scritte su camion e furgoni, non di rado vergate in un inglese per lo più di fantasia, finalmente veniva meno: tutto era scritto soltanto in italiano in forza del principio di territorialità della lingua, uno dei pilastri del federalismo elvetico. Naturalmente quel piccolo lembo dell’area italofona non poteva resistere da solo sine die alla pressione in atto. Perciò oggi gli anglicismi inutili si stanno diffondendo anche nella Svizzera, seppur in modo meno indiscriminato che da noi. Il problema senza dubbio non è soltanto per così dire tecnico. Quando parole italiane consolidate come ad esempio “pallacanestro” spariscono per lasciare il passo a “basket”, oppure quando un conduttore di telegiornale si dimostra incapace di procedere persino a una traduzione molto facile come quella di “touch screen” in “schermo tattile”, allora significa che il problema attiene alla sfera della psicologia e della sociologia prima che a quella dall’alfabetizzazione. Talvolta però chi traduce fa anche di peggio, come quando parole già dissestate nell’originale inglese vengono tradotte meccanicamente senza alcuna consapevolezza del loro senso. È il caso ad esempio di termini del linguaggio dei computer (che a loro volta potrebbero benissimo venire chiamati ordinatori) come “errore”, “simbolo” ecc. Parole con un contenuto morale e culturale importante che, già stravolte nell’originale inglese, vengo trasposte nell’italiano in modo meccanico portando quindi con sé là dove giungono l’equivoco che le inquina.
C’è quindi il rischio che crescano nuove generazioni per le quali ad esempio il disguido di una macchina è un errore (di chi poi? Del suo fabbricante o del suo utente?) o una “u” con la dieresi è un simbolo. Ovvero generazioni che non sanno di che cosa parlano. Con tutto ciò che di grave ne può conseguire. L’appello #dilloinitaiano è rivolto all’Accademia della Crusca che, fondata a Firenze nel 1583 dove da allora ha sede, è la più antica accademia linguistica del mondo; e dalla fondazione dello Stato italiano in avanti ha il compito ufficiale di presidiarne la lingua nazionale. Rispetto però ad analoghe istituzioni a presidio di lingue di ampio uso ufficiale, come ad esempio la Academie Fran?aise o la Real Academia Española, al di là della sua primogenitura l’Accademia della Crusca ha ben poco da vantare. Mentre l’Academie Fran?aise e la Real Academia Española godono di grande visibilità ed esercitano un attivo ruolo nella vicenda delle lingue cui rispettivamente sono dedicate, l’Accademia della Crusca è nota solo a un ristretto pubblico di proverbiali addetti ai lavori, e all’apparenza dorme. Tra l’altro nella pagina di apertura del sito ufficiale, che l’Accademia della Crusca ha su Internet, il pulsante “english version” precede quello “versione italiana”: una circostanza che ispira ulteriori dubbi sulla consapevolezza che hanno della sua funzione coloro che oggi la guidano. Auguriamoci che l’appello #dilloinitaiano la risvegli.
La questione della tutela della lingua – osserviamo concludendo – aveva sin qui un sapore di “destra” anche per l’impegno che a modo suo vi aveva profuso il fascismo. Adesso invece è stata sollevata a partire da ambienti di “sinistra” (le virgolette sono di rigore tenendo conto dell’indimenticata lezione di Giorgio Gaber). È una novità che al momento non sappiamo valutare, ma che merita di venire studiata. Una volta tanto l’ingiustificata posizione dominante che tale area ha nel mondo della comunicazione è comunque a servizio di una buona causa.