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INCHIESTA SU MANZONI / 9

Dal conte del Sagrato all’Innominato

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Il sopraffattore creato dal Manzoni nel Fermo e Lucia deve il suo nomignolo a un delitto compiuto sul sagrato di una chiesa. La figura di questo ribaldo è molto diversa da quella dell’Innominato nei Promessi Sposi. Scopriamo perché.

Cultura 20_03_2023

Nel Fermo e Lucia, romanzo pubblicato solo postumo, Manzoni creò un ribaldo decisamente diverso dall’Innominato dei Promessi sposi e gli attribuì il nome di conte del Sagrato per un delitto compiuto un giorno di festa, sul sagrato di una chiesa, dopo la celebrazione della Messa, dinanzi a tutti:

Il primo giorno di festa la chiesa del paese dove abitava il creditore era ancora tutta piena di popolo che assisteva agli uficj divini, che il Conte si trovava sul sagrato alla testa di una troppa di bravi. Terminati gli uficj, i più vicini alla porta […] videro quell’esercito e quel generale […]. Il Conte, al primo apparire di persone sulla porta, si era tolto l’archibugio, e lo teneva con le due mani in apparecchio di spianarlo. […] Si affacciò finalmente alla porta con gli altri il creditore aspettato, e il Conte al vederlo gli spianò lo schioppo addosso, accennando nello stesso punto col movimento del capo agli altri di far largo.

Il conte iniziò a inseguirlo. Le immagini icastiche mostrano una scena forte e teatrale. Tre soli personaggi si muovono sul palcoscenico: il conte con l’archibugio spianato, il misero inseguito che cerca di mescolarsi e nascondersi nel numero di tutti gli altri e la folla che si allontana. Il singolo, fatto oggetto di bersaglio del prevaricatore, non trova protezione nemmeno presso le persone comuni, appartenenti al popolo; viene isolato, diviene vittima sacrificale per il tiranno locale che vuole esercitare il suo potere, sfidando ogni legge umana e divina. La lotta per la sopravvivenza e l’amore per la propria vita sono determinanti. La vittima non lotta solo contro il sopraffattore, ma anche contro tutti gli ignavi che non reagiscono, succubi del potere e omertosi.

La descrizione mostra tutta la capacità del Manzoni nella rappresentazione delle masse:

Allora nacque al momento una gara fra quel misero, e la turba tutta compresa da quell’amore della vita, da quell’orrore di un pericolo impensato che occupando alla sprovveduta gli animi non lascia luogo ad alcun altro più degno pensiero. Cercava egli di ficcarsi e di perdersi nella folla, e la folla lo sfuggiva […], tanto ch’egli scorrazzava solo di qua di là, in un picciolo spazio vuoto, cercando il nascondiglio più vicino.

È una scena di caccia, ambientata nel sagrato della chiesa, senza alberi, protezioni o tane ove la preda possa nascondersi. Dinanzi a tutti, senza possibilità di sbagliare il bersaglio, il conte prese di mira la vittima designata, la colpì e la stese a terra. Accadde tutto in un istante. La folla sbandata scappava. Il conte non si scompose e se ne andò col suo seguito. Questo omicidio accrebbe la paura e lo sgomento che il personaggio provocava sugli altri. La suggestione e la memoria erano tali che venne a lui assegnato il titolo di conte del Sagrato, titolo che non gli dispiaceva affatto, anzi apprezzava, a ricordo di una sua qualche audace impresa, come erano passati alla storia Scipione l’Africano o Metello il Numidico.

Il conte aveva suoi bravi sia nello Stato milanese che nel Veneto, comandandoli dal suo castello posto sul confine. Non c’era tiranno di città che non si rivolgesse a lui per portare a termine le sue imprese, perfino principi stranieri si avvalevano del suo aiuto. Per queste ragioni, ora, per rapire Lucia, don Rodrigo si rivolge a lui, conoscendolo per fama e di persona. Nel dialogo don Rodrigo indulge spesso ad espressioni spagnole, come quando esordisce: «Dovrei scusarmi […] di venir così a dare infado a Vossignoria Illustrissima». Il conte reagisce in modo infastidito e categorico: «Lasci queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla».

Nel Fermo e Lucia compare questa netta antitesi tra la lingua di don Rodrigo e quella del conte, come se il primo avalli il potere straniero in Italia, mentre il secondo ne sia fortemente infastidito.

Nei Promessi sposi viene meno questa contrapposizione sia per ragioni artistiche sia perché Manzoni non desidera probabilmente rendere portavoce del suo messaggio politico di liberazione dell’Italia un ribaldo come l’Innominato. Manzoni rifugge da qualsiasi realismo idiomatico, non fa parlare i popolani Renzo e Lucia con lombardismi, desideroso di promuovere una lingua incardinata sul fiorentino. Quando Manzoni farà parlare Ferrer con una doppia lingua (italiano e spagnolo), perseguirà il fine artistico di attribuire al personaggio la doppiezza del politicante: lo spagnolo con gli intimi (per comunicare le vere intenzioni) e l’italiano con il pubblico (per fingere e simulare).

Il conte del Sagrato ostenta la sua cattiveria, compiaciuto della sua malvagità, come nel colloquio con Egidio, l’amante della monaca di Monza. Non compare in lui alcun segno di un senso tragico del male che possa poi aprirsi al pentimento e al cambiamento. Nel colloquio con don Rodrigo il conte è un negoziatore di delitti:

Patti chiari […] Venti miglia … un borgo… presso a Milano… un monastero… la Signora che spalleggia… due cappuccini di mezzo… signor mio, questa donna vale dugento doppie.

Questa misurazione o, per così dire, contrattazione sul prezzo del misfatto da compiere diminuisce la grandezza di un personaggio che nei Promessi sposi non avrà limiti, non conoscerà misure, sarà privo di confini perdendo addirittura il nome. Nel Fermo e Lucia manca la dimensione tragica del personaggio tanto che è del tutto assente l’episodio dei Promessi sposi in cui, di notte, l’Innominato medita il suicidio. Il conte vuole vedere Lucia, rapita e portata al suo castello, la rassicura, dicendole che non vuole farle del male:

E che male voglio io fare a voi scioccherella? […] Credete forse d’essere condotta al macello? Verrà un giorno che riderete di tutto questo vostro spavento e riderete forse anche di me, che vi rispondo ora così sul serio.

Alla domanda del conte, «Dov’è questo vostro Dio?», Lucia risponde con molte parole, con maggior loquacità rispetto ai Promessi sposi: il suo discorso si apre con l’asserzione che Dio è ovunque, perfino lì, in quel castello, e si conclude con la frase «Oh Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia» che diventerà nei Promessi sposi la salvezza dell’Innominato che deciderà di non spararsi alle tempie. Qui l’affermazione della ragazza provoca un’immediata reazione nella mente del conte, che non ha nulla di drammatico o di tragico, ma che rimanda alla dimensione mercantile dei delitti a lui appaltati:

Dugento doppie! Ne ho bisogno. Costoro vogliono essere ben pagati; eh! Hanno ragione: espongono la loro vita: ma vorrei piuttosto toglierne cinquanta a quattro usuraj, e farli scannare tutti e quattro.

Poi, allontanatosi da Lucia, il conte visita il suo castello per vedere che tutto sia in ordine, ma l’immagine della ragazza non lo abbandona; è seccato di aver voluto vedere in volto la ragazza e di provare ora compassione per lei; auspicherebbe che lei fosse «figlia d’uno spagnuolo» o di uno di quei birbanti che l’ha bandito così da provar gioia delle sue sofferenze.

Manca il dramma della conversione, l’esperienza di toccare il fondo del male e della miseria fino al punto di voler annichilirsi e sparire nel nulla. Persino la frase «Oh Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia» suscita nel conte il dubbio che quella «contadina» possa averla pronunciata solo perché l’ha udita dal curato. E poi, ex abrupto, senza un percorso di sofferenza e di travaglio scaturisce in lui la volontà di compiere un’opera buona, dopo tante scelleratezze. Così il conte, quando è ormai trascorsa gran parte della notte, è vinto dal sonno e si addormenta. L’Innominato non dormirà invece tutta la notte. La voce dei pellegrini che si recano dal cardinale Federigo Borromeo lo indurrà a partire per incontrare quell’uomo.