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METAMORFOSI

Così contro Putin i pacifisti sono diventati neo-con

La Sinistra ha sempre condannato gli interventi Usa in aree di crisi come neo-con, mentre dominava il dogma del dialogo. Da quando con Obama i rapporti Usa-Russia si sono rotti, Putin è diventato il nemico, il nuovo Saddam. Eppure l'equilibrio della guerra fredda nasceva dal riconoscimento della forza dell'avversario. Invece si benedicono armi e arruolamenti, ma si dimentica che la Russia è l'erede di una tradizione millenaria con linee geopolitiche riconoscibili. Gli interessi occidentali devono contrapporsi, ma tenendo conto della controparte perché l'Occidente deve avere meno nemici. 
- QUANTO CI STA COSTANDO LA GUERRA? di Luca Volontè

Esteri 05_03_2022

 

Il conflitto russo-ucraino ha innescato una repentina, incredibile mutazione genetica nel mainstream politico-culturale occidentale.

Per decenni, a partire dalla fine della guerra fredda, l'idea che i paesi liberaldemocratici – Stati Uniti in testa – potessero intervenire militarmente in aree di crisi e di conflitto per difendere attraverso l'uso della forza i principi sui quali i loro governi si fondano e i diritti umani è stata aspramente condannata dalla quasi totalità delle classi intellettuali, da buona parte delle forze politiche (soprattutto di sinistra, ma anche di destra) e dalla stragrande maggioranza delle opinioni pubbliche. Terminato l'equilibrio bipolare che per quasi mezzo secolo aveva “congelato” (almeno per gli europei e gli alleati Usa d'America e Pacifico) le guerre, sia pur sotto la paura di un olocausto nucleare visto però sempre più come puramente “virtuale”, gran parte degli occidentali guardava con orrore al fatto che nel mondo liberato dall''”equilibrio del terrore” i conflitti esistessero ancora, anzi ne esistessero più di prima, e fossero spesso non remoti ma molto vicini.

Men che meno si voleva accettare  che, tramontate le contrapposizioni ideologiche novecentesche, continuassero a esistere “scontri tra civiltà”, odi etnico-nazionalistici, guerre di religione. Il presunto “nuovo ordine mondiale”, di cui la superstite superpotenza statunitense si proponeva come il garante, insieme alle organizzazioni internazionali, era ritenuto accettabile solo se in esso i conflitti si componevano pacificamente e non c'era bisogno di sparare un colpo. Altrimenti si levava una condanna corale contro l'”imperialismo americano”, contro gli yankees guerrafondai, e quasi in automatico nascevano imponenti movimenti pacifisti amplificati a dismisura da mezzi d'informazione, letterati, artisti, mondo dello spettacolo.

Il rigetto per ogni giustificazione dell'uso della forza era tale che per rendere in qualche modo accettabile a quell'opinione pubblica pregiudizialmente avversa un intervento militare dettato dagli interessi occidentali era necessario presentarlo (soprattutto agli europei) come una “missione di pace” (peace-keeping, peace-enforcing), oppure come l'esercizio di una “polizia internazionale” contro non nemici riconosciuti, ma delinquenti (le cosiddette “guerre asimmetriche”). Giustificazioni nell'uno o nell'altro senso vennero usate dal governo statunitense e dai suoi alleati nel caso della spedizione statunitense in Somalia, dell'intervento Nato nelle guerre dell'ex-Jugoslavia, e infine dei conflitti successivi all'11 settembre 2001, quello afghano e quello iracheno.

Proprio nel contesto dei conflitti giustificati come contrasto alla minaccia mortale del terrorismo jihadista (la war on terror, secondo la definizione di George W. Bush, o le “guerre infinite”, come furono bollate dai loro detrattori), il gruppo di consiglieri del presidente americano noti con l'etichetta di neo-conservatives (abbreviato in neo-con) propose una dottrina di politica internazionale fondata sull'interventismo sistematico come metodo di difesa del modello liberal-democratico, o addirittura di sua espansione nel mondo, attraverso il rovesciamento dei regimi tirannici (regime change).

Dottrina che divenne oggetto di assoluto vituperio e demonizzazione da parte dell'enorme blocco politico pacifista nato contro l'invasione dell'Iraq nel 2003 soprattutto in Europa, e ha rappresentato da allora la “bestia nera” di tutte le sinistre occidentali, ma in più nel Vecchio Continente, in particolare, è stata talmente impopolare che quasi nessun politico o intellettuale ha osato difenderla, mentre dominavano incontrastate le letture della politica internazionale fondate sul multilateralismo ad ogni costo, sulla supremazia morale e giuridica dell'Onu, sul dogma del “dialogo”.

Tutto questo accadeva meno di vent'anni fa, ma oggi sembra il racconto di un'epoca remota. Da quando i rapporti tra gli Stati Uniti e la Russia di Putin hanno cominciato a deteriorarsi – a causa dell'avanzamento del fronte atlantico nei paesi ex sovietici o “satelliti” dell'Urss e dell'accresciuta pressione americana verso Siria e Iran - la classe politica progressista statunitense, da Obama a Hillary Clinton fino a Biden, ha cominciato a dipingere la Russia di Putin – che fino al 2002 era stata in vari modi associata all'Occidente (la nascita del G8, la partnership Nato-Russia nel 2002,  la solidarietà contro l'integralismo) - come un nemico tout court. E sempre più nei paesi europei – attraverso crisi come quella della Georgia e proprio dell'Ucraina, a partire dalla “rivoluzione arancione” - questa “narrazione” si è imposta in maniera incontrastata, nonostante la persistenza di ingenti rapporti economici e di una forte dipendenza energetica tra quei paesi e Mosca.

Ora, l'invasione russa dell'Ucraina ha innescato una tale accelerazione in questo processo da saldare, in poche settimane, un vastissimo fronte – composito, trasversale ma compatto -  che esprime nei confronti di Putin posizioni praticamente sovrapponibili a quelle che i neo-con statunitensi esprimevano nei confronti di Saddam Hussein, dei Talebani afghani o di altri regimi all'epoca classificati come “Stati-canaglia”, governi sostanzialmente illegittimi da rovesciare con la forza.

Tutta la retorica del dialogo, del costruire “ponti e non muri”, imperante fino a poco fa, si è improvvisamente ribaltata – mantenendo acrobaticamente la pretesa di “lottare per la pace” -  in una generale chiamata alle armi, proveniente da politica, accademica, cultura, media, show business contro un governo identificato senza mezzi termini come il Male assoluto: non soltanto si approvano sanzioni, ma si benedicono forniture militari e arruolamenti di volontari, si invoca lo scontro, si immaginano processi internazionali per crimini di guerra. Descrivendo il nemico con toni che vanno – senza troppa coerenza - dalla classica iconografia del “dittatore folle” alla teoria per cui anche dopo la fine dell'Urss la Russia è rimasta strutturalmente l'”impero del male” di reaganiana memoria.

Ma il fronte “neo-neo-con” occidentale in cui sono confluiti progressisti, liberali, moderati popolari sembra dimenticare che la Russia putiniana, da qualunque angolazione la si guardi, non può essere ridotta ad un rogue state. Essa è invece l'erede di una tradizione statuale e imperiale millenaria, la cui politica estera segue – prima, durante e dopo il regime comunista – linee geopolitiche ben riconoscibili. Ad esse gli interessi e i principi fondanti occidentali possono e devono in certi casi contrapporsi: ma tenendo realisticamente conto della natura e della storia della controparte, senza semplificazioni caricaturali.

E se pure il regime putiniano fosse davvero qualcosa di paragonabile alla vecchia Unione Sovietica, a maggior ragione verso di esso l'approccio occidentale non potrebbe essere una scatenata corsa all'escalation militare. Perché si tratta di una potenza nucleare, e della sua forza oggettiva occorre tenere conto per la sicurezza di tutti. Perché l'equilibrio della guerra fredda nasceva appunto dal riconoscimento della forza dell'avversario, che si traduceva nel tracciamento di una chiara divisione in zone di influenza per una efficace difesa della sicurezza degli alleati. E infine perché l'Occidente dovrebbe cercare di avere meno nemici e fronti aperti possibili, e saldare sempre più la Russia alla Cina - ponendo le basi per un fronte anti-occidentale dell'Oriente/Sud del mondo che potrebbe attrarre gran parte di Asia, Africa e America latina – non pare, dal punto di vista strategico, una grande idea.