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L’EPIDEMIA SI ALLARGA

Coronavirus in Africa, serve l’intervento internazionale

Individuato il 14 febbraio, in Egitto, il primo caso di coronavirus nel continente africano, dove sono pochi i laboratori idonei. Nelle epidemie passate diversi governi africani hanno peggiorato le crisi, nascondendo le emergenze sanitarie. E anche oggi si rende necessario l’intervento dell’Oms e dei suoi partner, per arginare il problema.

Attualità 16_02_2020

Il coronavirus è arrivato in Africa. Il primo caso è stato individuato in Egitto il 14 febbraio. Dall’inizio dell’epidemia uno dei maggiori motivi di preoccupazione era proprio che il virus raggiungesse il continente, ben conoscendone le carenze dei sistemi sanitari e di controllo. “I Paesi africani sono pronti per lottare contro il virus?”, è la domanda rivolta insistentemente agli esperti.

Il 30 gennaio l’Oms ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria internazionale proprio pensando agli Stati difficilmente in grado di far fronte a un’epidemia, in particolare quelli africani. “Il motivo principale che ci ha spinto a dichiarare l’emergenza globale non è ciò che sta succedendo in Cina, ma in altri Paesi. La nostra maggiore preoccupazione è la possibilità che il virus raggiunga Stati con sistemi sanitari deboli”, ha spiegato il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus.

Considerando gli stretti rapporti economici che intercorrono tra molti Paesi africani e la Cina e il ritardo con cui le autorità cinesi hanno lanciato l’allarme, in realtà il nuovo coronavirus potrebbe essere già presente in Africa da molti giorni senza che sia stato diagnosticato. Il primo problema è infatti che, fino all’inizio di questa settimana, c’erano solo due laboratori in tutto il continente in grado di eseguire i test per verificarne la presenza: uno in Senegal e uno in Sudafrica. Nel fine settimana hanno annunciato di essere attrezzati a farlo anche Nigeria, Ghana, Madagascar e Sierra Leone. Negli altri Stati i medici si possono basare solo sui sintomi che però sono comuni, simili a quelli di molte altre malattie. “Non c’è dubbio. Siamo del tutto impreparati. Se si verificassero anche solo un paio di casi, il virus farebbe in fretta a diffondersi. Facciamo del nostro meglio con quel che abbiamo a disposizione”. A dirlo, intervistato l’8 febbraio dall’Associated Press, è Fundi Sinkala, un fisioterapista che lavora al Sino-Zambia Friendship Hospital della città mineraria di Kitwe, nello Zambia settentrionale.

L’ospedale misura la febbre ai pazienti, ha creato dei reparti di isolamento. Ha scorte di guanti, disinfettanti e maschere a ossigeno. I dipendenti indossano le maschere. In realtà è in grado di adottare molte più precauzioni degli altri ospedali della regione. Ma se i sistemi sanitari africani sono carenti, inadeguati anche in condizioni normali, c’è un motivo, e non è quasi mai la povertà, la mancanza di risorse finanziarie. Il personale del Sino-Zambia Friendship Hospital ha raccontato, chiedendo l’anonimato: “Dei pazienti cinesi che presentavano sintomi tra cui tosse e febbre non sono stati messi in isolamento. I funzionari sanitari hanno stabilito che per loro non era necessario nessun trattamento speciale, non hanno preso dei campioni per spedirli ai centri in grado di effettuare i test, e, quando gli ammalati si sono sentiti un po’ meglio, li hanno dimessi prescrivendo loro degli antibiotici”.

Altri problemi possono derivare dal fatto che spesso i governi africani, per mascherare inerzia e inefficienza, negano e nascondono le emergenze sanitarie peggiorando così le crisi e in certi casi rendendole ingestibili. Molti governi lo hanno fatto con l’Aids, con gli esiti devastanti che tutti conoscono. Lo hanno fatto i governi di Guinea Conakry, Sierra Leone e Liberia con l’epidemia di Ebola scoppiata nel 2013 e conclusasi nel 2016 dopo aver fatto oltre 11.000 morti. Nei giorni scorsi l’Oms ha obbligato i Paesi a comunicare tempestivamente ogni caso, confermato o sospetto. Lo ha chiesto formalmente il direttore generale dell’agenzia dell’Onu. È indispensabile che tutti obbediscano, lungo tutta la catena sanitaria, dai ministeri responsabili al più piccolo e sperduto presidio. Ma l’esperienza di molte emergenze sanitarie suggerisce che difficilmente sarà così.

Il 7 febbraio, rispondendo ai mass media, il dottor Michael Yao, direttore delle operazioni di emergenza dell’Oms in Africa, ha sintetizzato la situazione in questi termini: “Anche se alcuni Paesi hanno qualche risorsa per affrontare il virus, sappiamo quanto siano fragili i sistemi sanitari in Africa, già sopraffatti da molte epidemie in corso. Perciò riteniamo essenziale individuare i casi quanto prima per poter prevenire la diffusione del virus”.

Le parole del dottor Yao spiegano con chiarezza i termini reali del problema. È inutile domandare se l’Africa è pronta ad affrontare una nuova epidemia. Certo che non lo è. La domanda corretta è se, ancora una volta, è in grado ed è disposta a farlo la comunità internazionale, vale a dire l’Oms e i suoi partner e, quindi, i loro maggiori finanziatori che sono i Paesi industrializzati occidentali: Stati Uniti, Paesi europei, Unione Europea e alcuni altri donatori minori.

L’intervento internazionale è sempre necessario per risolvere o perlomeno tenere sotto controllo e circoscrivere le emergenze sanitarie africane; se possibile, per prevenirle. Solo grazie a esso la diffusione e l’incidenza di malaria, Aids e tubercolosi sono state quasi dimezzate. L’Ebola è stata sconfitta in Africa occidentale nel 2016 solo grazie all’Oms e ai suoi partner. Quando ne sono state colpite, la Sierra Leone aveva un solo dottore ogni 50.000 abitanti, la Liberia uno ogni 100.000, la Guinea 10. Da allora la situazione non è cambiata.

Anche due tra i maggiori successi contro le malattie infettive registrati in Africa sono stati dovuti all’intervento internazionale. La campagna di vaccinazione contro la poliomielite a partire dagli anni Novanta del secolo scorso ha raggiunto centinaia di milioni di bambini con il risultato che la malattia è stata quasi del tutto debellata. Le due campagne di vaccinazione contro la meningite A condotte dall’inizio del secolo nei Paesi in cui era endemica, riuscendo a vaccinare oltre 300 milioni di persone, hanno portato alla sua quasi totale scomparsa. Ma, come spesso ammonisce l’Oms, nessuna emergenza è mai del tutto risolta e, anzi, minaccia di ripresentarsi non appena si lascia ai governi locali la gestione ordinaria dell’apparato sanitario.

La successiva domanda, dunque, è: fino a quando la comunità internazionale potrà e vorrà sostituirsi a popolazioni e governi inerti, impreparati, incapaci?