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L'EDITORIALE

Chi è l'assassino?

Le sconcertanti vicende relative ai delitti di Perugia e di Avetrana ripropongono la distorsione sia del sistema investigativo - vittima di una deriva scientista - sia del sistema processuale, ormai vittima dei tribunali televisivi.

Editoriali 13_10_2011
avetrana

C’era una volta il Tenente Colombo. Che quando arrivava sulla scena del crimine, con il suo impermeabile sgualcito e la sua aria perennemente confusa, aveva già fiutato la pista giusta per mettere il sale sulla coda dell’assassino. La cronaca giudiziaria italiana di questi ultimi tempi ci mette davanti a uno scenario completamente diverso: sembra che i colpevoli di non pochi delitti di sangue riescano a farla franca. Il caso più recente, quello di Amanda Knox, e la complicata vicenda di Avetrana, comunicano all’opinione pubblica una sensazione di impotenza degli organi investigativi e della magistratura. Come se, improvvisamente, scoprire il colpevole di gravi delitti fosse diventata una missione impossibile.

C’è subito da dire che un processo penale che si conclude con un’assoluzione non è necessariamente un fallimento: se non ci sono prove è giusto che l’imputato sia assolto. Sarebbe gravissimo cedere alla tentazione del capro espiatorio, e della condanna di qualcuno allo scopo, appunto, di tranquillizzare i consociati con l’individuazione di un colpevole qualsiasi. Ma chiarita questa elementare verità morale e giuridica, restano sul tappeto alcuni nodi irrisolti.


Il primo riguarda la traslazione mediatica di certi processi. Che non si svolgono più innanzitutto nelle aule giudiziarie, ma che diventano degli insopportabili tormentoni mediatici. Non l’austera aula del tribunale ma gli studi televisivi diventano la sede del dibattimento. Ogni pudore viene gettato alle ortiche e sull’opinione pubblica viene rovesciato un menù truculento che non lascia niente all’immaginazione. Al punto che i telegiornali di prima serata, una volta così austeri e dunque godibili da tutta la famiglia, sono oggi diventati dei programmi a rischio per i minori.

A guardar bene, questa patologia ha molto a che fare anche con gli esiti giudiziari delle inchieste: si tende infatti a costruire l’idea che la soluzione di un processo sia una faccenda democratica, nella quale il parere della maggioranza dei cittadini possa determinare condanne e assoluzioni. Si crea così un’aspettativa anomala che coinvolge in maniera davvero singolare milioni di persone, che si schierano pro o contro l’imputato, e che finiscono con l’esercitare una pressione enorme su coloro che dovranno effettivamente giudicare. E che solleticano le inevitabili ambizioni personali di tutti i protagonisti della vicenda, a cominciare dall’imputato che assurge – paradossalmente - a ruolo di modello della gioventù. Si dirà che da sempre i grandi processi penali dividono l’opinione pubblica in colpevolisti e innocentisti. E’ vero. Ma quel fenomeno non aveva nulla a che fare con la mostruosa macchina mediatica che oggi si scatena intorno ad alcuni fatti di sangue.


La seconda osservazione riguarda i sistemi investigativi. Da alcuni anni abbiamo a disposizione strumenti scientifici incredibilmente sofisticati, che promettono di fornire prove schiaccianti e inequivocabili. Squadre di tecnici in tuta bianca battono centimetro per centimetro la scena del crimine, alla ricerca di elementi utili alle indagini. Il cambiamento è stato epocale, al punto che perfino le fiction tv che una volta avremmo chiamato “poliziesche” hanno eletto a protagonisti uomini e donne che maneggiano microscopi e provette, e che dissezionano cadaveri e pallottole.

Nessuno vuole disconoscere l’importanza, talvolta decisiva, di questi strumenti. Ma l’impressione è che, ancora una volta, il pensiero scientifico prometta risultati che non può assicurare.

Ritorna l’eterna illusione: e cioè che una prova di laboratorio sia automaticamente una prova decisiva per il tribunale. Non  è così, per la semplice ragione che il dato empirico ha comunque bisogno di essere collocato in un contesto e interpretato alla luce della volontà e della condotta umana. Forse ci sbagliamo, ma l’impressione è che le tradizionali tecniche di investigazione siano state soppiantate dalla cieca fiducia nelle “magie” della investigazione scientifica. Poliziotti e carabinieri sanno benissimo che per acciuffare l’assassino le prime ore successive al delitto sono decisive; osservazione macroscopica della scena del crimine, interrogatori e contatto diretto con le persone sono fondamentali e, non di rado, risolutivi. Oggi, però, sembra che tutto dipenda dalle tracce di dna, o dalle perizie balistiche.

Il risultato, temiamo, è un sistema investigativo nel quale gli avvocati difensori e gli imputati – siano essi colpevoli o innocenti – possono trovare appigli e scappatoie in quantità industriale. Perché è molto più facile ingannare una provetta di laboratorio che il Tenente Colombo. Sul campo rimane, tramortita se non addirittura defunta, un’unica illustre vittima: la verità.