Aurelio Gazzera, un uomo di pace in un Centrafrica in guerra
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Dopo il golpe della coalizione islamica Seleka nel 2013, non c'è più stata pace in Centrafrica. Aurelio Gazzera, vescovo di Bangassou, in missione da 34 anni, è un punto di riferimento per chiunque voglia trovare rifugio e pace. Ora lancia un appello a tutte le parti in conflitto.

Monsignor Aurelio Gazzera, nato a Cuneo nel 1964, frate dell’ordine dei Carmelitani scalzi, in missione da 34 anni nella Repubblica Centrafricana, dal giugno del 2024 è vescovo coadiutore di Bangassou, una diocesi nel sud est del paese grande come metà dell’Italia che conta 14 parrocchie e poco più di 82mila fedeli su 582mila abitanti. Il 5 giugno, insieme a monsignor Juan José Aguirre, vescovo anche lui di Bangassou, ha scritto una lettera aperta ai cattolici e a tutti gli uomini di buona volontà, un appello accorato alla pace, a interrompere la spirale di violenza che devasta il territorio della diocesi, come peraltro di quasi tutto il paese dal 2013.
Quell’anno Seleka, una coalizione di gruppi antigovernativi, ha preso il potere con un colpo di stato e da allora il paese non ha più conosciuto pace. Anche dopo il ripristino formale delle istituzioni democratiche, i miliziani Seleka, che in gran parte appartengono alla minoranza di fede islamica, non hanno deposto le armi. Nell’inerzia del governo e della missione di peacekeeping Onu Minusca presente nel paese dal 1998, hanno preso a infierire con crescente violenza sui cristiani. Questi a loro volta hanno costituito delle milizie di autodifesa, chiamate Anti-Balaka, che, in poco tempo, dalla protezione di persone e beni minacciati sono passate all’offensiva, mostrando altrettanta ferocia. Nonostante un susseguirsi di cessate il fuoco e di accordi di pace, mai rispettati, il 70% circa del paese è tuttora in balia di decine di gruppi armati che si contendono territori e risorse. Alla protezione della capitale Bangui e dei suoi dintorni provvedono, anche dopo la morte del loro capo, Yevgeny Prigozhin, i mercenari russi Wagner ai quali in cambio il governo, dal 2016 guidato dal presidente Faustin-Archange Touadéra, concede di sfruttare le miniere d’oro, una delle ricchezze del paese.
«Non possiamo accettare che il Sud-Est del nostro Paese, la Repubblica Centrafricana, sia teatro di violenze di ogni tipo, una terra da cui la gente fugge, una terra di desolazione – scrivono monsignor Aurelio e monsignor Juan José – piangiamo decine di morti in queste ultime settimane. Ma il Sud-Est è in lutto da decenni, una terra ambita e sfruttata prima dai ribelli Tongo-Tongo dell'Lra (Lord Resistance Army, un gruppo armato ugandese, N.d.A.), poi dalla Seleka e infine dagli Ani Kpi Gbe (uno dei gruppi di autodifesa, N.d.A). Quest'ultimo movimento, nato per proteggere la popolazione dalle violenze dell'Upc (Unione Per la Pace, uno dei gruppi Seleka, N.d.A.) e di altri gruppi armati in passato, rischia di diventare un pericolo per la popolazione stessa. Nelle ultime settimane abbiamo pianto i morti: militari delle Forze di Sicurezza Interna e molti, troppi, civili. Civili colpiti, feriti, torturati e sgozzati nella più totale impunità. Piangiamo con le migliaia di civili costretti a fuggire da Zemio, Mboki e Djema, tra cui decine di migliaia diretti in Congo. Piangiamo con i villaggi bombardati, saccheggiati e incendiati. Dobbiamo fermare tutto questo: non è con la violenza che la violenza finirà. Al contrario! La violenza genera solo altra violenza, divisione e miseria, odio, sfiducia e, in definitiva, un circolo infernale di vendetta”.
Quello che scrivono i due vescovi vale per tutto il paese. Prima di trasferirsi a Bangassou, monsignor Aurelio ha svolto la sua missione nel nord ovest e anche lì ha sperimentato la durezza e la violenza della guerra. Eppure anche nei momenti più bui, nell’insicurezza totale, ha approfittato di ogni momento di tregua per costruire, e ricostruire se necessario, i segni della normalità, trovando il modo di infondere speranza e vigore nei suoi parrocchiani spesso esausti e atterriti da notizie di combattimenti sempre più vicini. A Bozoum, dal 2003 quando ne è divenuto parroco, ha creato una banca, una scuola media, un liceo e, anche dopo il 2013, è riuscito a far sì che ogni anno a febbraio, persino quando un gruppo armato era segnalato nelle vicinanze e quando le strade prive di manutenzione diventavano difficili da percorrere o del tutto impraticabili, si svolgesse la tradizionale fiera agropastorale, un evento unico nel paese che attira agricoltori da città e villaggi anche lontani.
Da allora monsignor Aurelio ha iniziato a scrivere un blog in diverse lingue e nel 2018 i suoi post sono stati raccolti in un libro intitolato Coraggio (Edizioni Salinzucca). Il sottotitolo è Bisogna dare battaglia perché Dio conceda la vittoria. Il coraggio a padre Aurelio, ora monsignor Aurelio, non manca e di battaglie ne ha combattute tante, anche a rischio della vita come quando, nel 2019, ha cercato di fermare 17 cantieri cinesi avviati per estrarre l’oro da un fiume vicino a Bozoum che stavano provocando gravissimi danni ambientali. Era andato fino alla capitale riuscendo a farsi ricevere dal ministro delle miniere e a ottenere che ordinasse la sospensione delle attività estrattive. Al ritorno a Bozoum, dato che invece i cinesi continuavano a lavorare, ha sfidato i militari che impedivano l’accesso ai cantieri per documentarlo con foto e filmati ed è stato arrestato. L’intero paese è insorto contro cinesi e soldati, costretti a liberalo per evitare una sommossa.
«Chiediamo – conclude la sua lettera – a tutte le parti coinvolte, Azande Ani Kpi Gbe, Faca, Wagner e alla popolazione, di porre fine alla violenza e di impegnarsi affinché questa regione remota e isolata, senza strade né comunicazioni, possa vivere in pace e diventare una terra dove ogni donna, ogni uomo, ogni bambino, ogni giovane possa guardare alla vita e al futuro con speranza. La Chiesa Cattolica, che in queste settimane ha aperto le porte delle Missioni di Zemio, Mboki e Obo, è sempre pronta e disponibile ad accogliere quanti hanno buona volontà intorno a un tavolo per discutere e lavorare per la pace, la riconciliazione e lo sviluppo nella regione. Non è tempo di guerra, ma di dialogo! Non è più tempo di violenza, ma di ascolto! Non è tempo di indulgere in sospetti, rancori, accuse generiche e gelosie, ma di ascoltare i poveri che gridano e chiedono la pace! Preghiamo e imploriamo la pace. Ma siamolo noi, donne e uomini di pace, nei nostri pensieri, nelle nostre parole e nelle nostre azioni! La pace sia con voi!».
La lettera è stata letta in tutte le parrocchie, durante la messa, domenica 8 giugno. Nel frattempo la situazione si è fatta ancora più critica. Nel suo blog monsignor Aurelio ha scritto il 7 giugno: «alcuni ribelli del gruppo Azande Ani Kpi Gbe, che l’esercito e i russi volevano disarmare, hanno attaccato i militari e ucciso 5 soldati. E la reazione è molto forte. Da qualche giorno sono arrivati rinforzi e mezzi (elicotteri, droni, truppe) e la gente è nel panico. A Zemio ci sono più di 3.500 persone rifugiate alla Missione e a Mboki la popolazione si è raggruppata nella chiesa che avevamo appena riconsacrato! La situazione è molto tesa e la paura è che civili innocenti vengano arrestati, feriti e uccisi. All’origine della ribellione (degli Azande Ani Kpi Gbe, N.d.A.) ci sono delle ragioni serie: la regione è quasi abbandonata dallo Stato: non ci sono strade, pochissimi insegnanti, quasi nessun ospedale. E i prezzi dei generi di prima necessità sono da 2 a 3 volte quelli della capitale. E preghiamo e speriamo che il Governo rifletta bene sulle cause che hanno portato alla ribellione e si decida, una buona volta, a intervenire non tanto con la forza, ma con lo sviluppo!»
Benché ricchissimo di materie prime, tra le quali i diamanti e l’oro, la Repubblica Centrafricana è uno dei paesi più poveri del mondo. Quasi l’86% dei suoi 5,5 milioni di abitanti vivono al di sotto della soglia di povertà. Nell’Indice di Sviluppo Umano (Isu) 2025 dell’Onu il paese è terzultimo, seguito solo dalla Somalia e dal Sudan del Sud. Chi conosce la sua storia non se ne meraviglia. Indipendente dal 1960, il suo primo presidente, David Dacko, ne ha mandato in rovina l’economia finché con un colpo di stato nel 1965 ha preso il potere il colonnello Jean-Bédel Bokassa, che ha completato l’opera del suo predecessore dilapidandone le risorse in uno sfrenato delirio di grandezza, culminato nel 1976 con l’autoproclamazione a imperatore. Dopo la sua caduta nel 1979, prima del colpo di stato del 2013, fu un susseguirsi di governi autoritari e corrotti.