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LA QUESTIONE

Allargare la ragione, tradita l'eredità di Benedetto XVI

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Ratzinger ha invitato più volte ad “allargare” la ragione, vittima di un processo secolare che dal XIV secolo ai giorni nostri, passando per Kant, le ha fatto perdere la fiducia di poter conoscere l’ordine oggettivo e finalistico delle cose. Questo invito, durante l’attuale pontificato, non è stato raccolto: la via indicata da Francesco è infatti post-metafisica, cioè kantiana.

Editoriali 21_03_2023 English

Una delle principali indicazioni che Benedetto XVI ci ha lasciato in eredità è l’invito ad “allargare” la ragione. Lo ha scritto e detto in molte occasioni, anche se ricordiamo soprattutto il suo discorso del 12 settembre 2006 nell’aula magna dell’Università di Ratisbona (Regensburg). La ragione, egli diceva, aveva subito una “auto-limitazione” da essa stessa “auto-decretata”. Si era trattato di un processo secolare che Benedetto faceva risalire addirittura al XIV secolo e a Ratisbona aveva citato il filosofo tedesco Immanuel Kant come uno dei suoi passaggi decisivi.

Progressivamente la ragione aveva perso la fiducia di poter conoscere un ordine oggettivo e finalistico delle cose e, anzi, aveva assunto la pretesa che la realtà fosse da essa stessa costruita, riducendola così a desiderio soggettivo. Una ragione così estenuata non è più in grado di aprirsi alla fede cristiana, o meglio cattolica, perché questa ha delle esigenze di ragionevolezza che la ragione depotenziata non riesce più a soddisfare, anzi che respinge decisamente come violente e impositive. La ragione moderna indebolita e svilita può andare d’accordo con le religioni che non hanno pretese di verità e che accettano di essere considerate nella pubblica piazza come dei miti soggettivi. Ma così non può essere per la religione cattolica che, ritenendosi la Religio vera e non un mito, pone la questione della verità e su questo interpella anche la ragione, invitandola così ad essere se stessa fino in fondo. L’allargamento della ragione di Benedetto XVI era quindi la via maestra dell’evangelizzazione da parte della fede in dialogo con la ragione sul comune terreno della verità.

Bisogna riconoscere che nel decennio del pontificato di Francesco questa eredità non è stata raccolta. La Chiesa di Francesco vuole essere post-metafisica, quindi kantiana, e non crede affatto che - come invece sosteneva Benedetto - l’incontro tra la filosofia greca e la religione cristiana sia stato provvidenziale. L’approccio filosofico di Francesco è esistenzialista e storicista, egli non adopera più il termine “natura” ed evita l’aggettivo “naturale” che rimanda a strutture non soggette al cambiamento. Possiamo dire che sia anche nominalista, nel senso che per Francesco la vita è fatta di esperienze singole, uniche, e il pensiero non riesce a cogliere nella realtà delle strutture universali. Per lui, quindi, non si danno delle categorie di pensiero che riflettano la struttura reale e finalistica delle cose, né si danno delle formalità che definiscano l’intrinseca malvagità di un’azione, e per questo non è possibile nemmeno giudicare, come ha espressamente dichiarato. Per esempio, per lui non esiste la categoria dei “divorziati risposati” e la formalità morale dell’adulterio, ma si danno le singole esperienze uniche e irripetibili di questa o di quella coppia di divorziati risposati. Non si può quindi esprimere un giudizio valutativo di una situazione strutturale, di un peccato pubblico, di una sconvenienza oggettiva, ma bisogna piuttosto incontrare quella esperienza dal di dentro della sua specificità.

L’invito di Francesco a non giudicare rispecchia la sostituzione di un paradigma metafisico e conoscitivo di strutture universali con uno esistenziale ed esperienziale circoscritto di volta in volta ad una situazione specifica. In questo modo, però, la ragione viene ristretta. L’Esortazione Amoris laetitia (2016) è stata anche da questo punto di vista un passaggio importante. Il nuovo approccio ha smobilitato tutte le verità ritenute oggettive a proposito di divorzio, adulterio, peccato, accostamento ai Sacramenti, e al loro posto è stata messa la coscienza soggettiva e dialogante che si muove all'interno di situazioni esistenziali uniche che possono solo venire interpretate in un percorso infinito di discernimento. In questo modo tutta la teologia morale cattolica viene messa in discussione. La Veritatis splendor di san Giovanni Paolo II, per fare un esempio, non contrapponeva tra loro norma e situazione, legge e coscienza, come fa invece ora il nuovo magistero. Siamo davanti ad una limitazione della ragione: se ogni ragionare è collocato dentro una situazione e non è possibile per la ragione conoscere strutture oggettive e universali, allora si potrà solo fare esperienza, incontrare l’altro ma non conoscere veramente. Diventerà impossibile anche sapere quando si sia in stato di peccato.

Il 29 gennaio 2018, Francesco ha pubblicato la costituzione apostolica Veritatis gaudium sugli studi nelle università e le facoltà ecclesiastiche, in sostituzione della costituzione Sapientia christiana di san Giovanni Paolo II. Nella nuova costituzione la parola metafisica non c’è nemmeno, nessun riferimento al realismo come metodo della filosofia, grande enfasi sul dialogo interdisciplinare ma senza un ordine se non quello (debolissimo) garantito dall’antropologia, nessuna eco delle forti affermazioni della Fides et ratio (1998). Non c’è dubbio che si tratti di un indebolimento della ragione.

Considerando questo restringimento della ragione, si può capire come tutto si stemperi in un vago atteggiamento teoretico di accoglienza. La Chiesa della sinodalità comporta un “dentro tutti” e un “dentro tutto”, postula l’indistinzione tra Chiesa docente e Chiesa discente, ammette la pubblicazione delle più varie stranezze logiche e teologiche senza che nessuno precisi alcunché.