Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LA STORIA

Vincent, il condannato a morte nella "libera" Francia

Non è in coma, non è in stato vegetativo, non è in fin di vita. Eppure deve morire. La cultura di morte continua ad avanzare. In Francia Vincent Lambert è un paziente tetraplegico e dovrà morire il 19 aprile. E' la decisione medico-giudiziaria dopo un lungo iter iniziato nel 2013. Un dramma che ora arriva anche sul tavolo del presidente Macron. Anche per lui il Papa ha pregato ieri nel Regina Coeli.

Vita e bioetica 16_04_2018

Non è in coma, non è in stato vegetativo, non è in fin di vita. Eppure deve morire. La cultura di morte continua ad avanzare e dall’Inghilterra, dove la voce eloquente dei due martiri Charlie e Isaiah continua a gridare nel piccolo Alfie, si attraversa La Manica e si arriva nella “civilissima” Francia, a Reims, ospedale CHU Sébastopol.

Un uomo che non è mantenuto in vita da chissà quali macchine, che non necessita di chissà quali terapie che potrebbero essere ritenute sproporzionate, un uomo che è semplicemente tetraplegico, a causa di un incidente stradale avvenuto dieci anni fa, e che – allo stato attuale – riesce a mangiare e a bere solo in modo medicalmente assistito: Vincent Lambert. Nel 2011 i genitori Viviane e Pierre si erano rivolti al Coma Science Group dell’Università di Liegi, che definì la condizione di Vincent come uno “Stato di Minima Coscienza plus”. In questa condizione, la persona, pur non riuscendo a comunicare, ha gli occhi aperti, come nello stato vegetativo, ma a differenza di quest’ultimo, risponde agli stimoli ambientali con comportamenti volontari, sebbene limitati.

Eppure, il 9 aprile scorso, il dott. Vincent Sanchez ha decretato la condanna a morte di Vincent Lambert, 42 anni. Data di esecuzione: il prossimo 19 aprile.

Il calvario per i genitori di Vincent poteva e doveva essere “solo” quello dell’infermità del figlio, ed invece la maggior causa di travaglio, sofferenza, delusione è stato l’iter giudiziario, iniziato nel 2013. Fino al settembre 2012, il dottor Kariger riteneva Vincent “un malato non difficile”, tant’è che autorizzò di mandarlo qualche giorno nella casa di famiglia, sita nel dipartimento della Drôme, a sud-est della Francia, a oltre 600 km dall’ospedale. Ma il 5 aprile 2013, i medici hanno fatto capire ai genitori che dovevano iniziare a prepararsi “per far partire” Vincent. In realtà la decisione era già stata presa, e la sola ad esserne al corrente era la moglie di Vincent, Rachel, che, da quel momento inizierà una battaglia legale, insieme al nipote François, per ottenere l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione.

Il 20 aprile dello stesso anno, casualmente – o meglio, provvidenzialmente –, un fratello di Vincent era venuto a sapere che già da 16 giorni era stata cessata la nutrizione. Solo l’11 maggio, dopo 31 giorni senza alimentazione e con idratazione ridotta, il Tribunale Amministrativo di Châlons-en-Champagne ingiunse all’ospedale la ripresa del necessario per mantenere la vita di Vincent.

L’11 gennaio 2014, il dottor Kariger tornava alla carica, annunciando alla famiglia di voler nuovamente porre fine all’alimentazione e idratazione di Vincent e il Tribunale Amministrativo, per la seconda volta, decideva di annullare la decisione del medico, ritenendo che “la prosecuzione del trattamento non è inutile né sproporzionata [come invece sostenuto da Kariger, n.d.a] e non ha altro fine che di mantenere artificialmente la vita”.

Rachel e l’ospedale stabiliscono allora di fare ricorso al Consiglio di Stato, che il 24 giugno dà ragione all’ospedale. I genitori di Vincent provano a ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, che il 5 marzo 2015 conferma la cessazione dell’alimentazione e dell’idratazione. I medici decidono però di non applicare questa decisione, presa di posizione che provoca il ricorso del nipote di Vincent al Tribunale Amministrativo di Châlons-en-Champagne per esigere che i medici applichino la sentenza; ma anche questa volta, il Tribunale respinge la richiesta di François. Nel frattempo, Vincent viene affidato alla tutela della moglie. Il 22 settembre il nuovo medico responsabile di Vincent, il dottor Sanchez annuncia ai familiari di aver intrapreso una nuova procedura collegiale (la quarta), per decidere della sorte di Vincent, che ha condotto alla decisione del 9 aprile.

Come nel caso di Alfie, l’ospedale si rifiuta di “rilasciare” Vincent, per poter effettuare un trasferimento ad altre strutture che hanno manifestato la volontà di continuare l’alimentazione e l’idratazione e riprendere delle terapie per stimolare Vincent. Di fronte a questa incarcerazione medica e di stato, la madre di Vincent ha deciso di fare un appello al presidente Macron, che, come ricorda Viviane, proprio lunedì 9 aprile era ai “Bernardins per parlare dell’handicap e della vulnerabilità”, affermando che dobbiamo costruire “una politica efficiente, una politica che sfugga al cinismo ordinario per incidere nella realtà ciò che dev’essere il primo dovere di un politico, cioè la dignità dell’uomo”.

Ed è sempre alla dignità della persona che ha richiamato papa Francesco, nel Regina Caeli di ieri, quando ha invitato a pregare per Alfie e per Vincent, chiedendo che ogni malato venga “curato in modo adatto alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari. Con grande rispetto della vita”.

Ma il problema è proprio qui: qual è il contenuto di questa dignità che sia la Chiesa che Macron rivendicano, ma giungendo a conclusioni opposte? E’ la stessa Viviane a toccare il nervo scoperto: “Se è necessario che [Vincent] muoia, non è per la sua dignità: è per una volontà eutanasica. Mio figlio dev’essere sacrificato per farne un esempio. Un caso di scuola”. Per la Chiesa e per qualsiasi persona retta, la vita è vita e non ci sono condizioni psico-fisiche che la rendono più o meno degna di essere vissuta. E perciò dev’essere rispettata sempre. E concretamente. Vincent non è meno degno di vivere di Macron e perciò è più che mai giusto che gli sia garantita l’assistenza necessaria perché egli continui a vivere. Punto. In Francia ci sono altre centinaia di persone in condizioni simili a quelle di Vincent; ma allora, chiede Viviane, “queste 1700 persone handicappate in stato pauco-relazionale, saranno condannate a morte?”. E’ così: se la pena capitale che pende su Vincent verrà eseguita, una nuova breccia nel già lacunoso sistema giuridico francese sul fine vita verrà aperta.

Alfie deve morire, per non mettere in crisi il sistema eutanasico inglese; Vincent deve morire, per allargare le maglie di quello francese. Il Leviatano non accetta limitazioni ed ancor meno sconfitte; neppure “piccole”. Perché il sistema perfetto, il sogno eugenetico è messo in crisi dai singoli, imperfetti e reali. Perciò il singolo concreto, quell’io che resiste ad ogni dissoluzione in un sistema, quell’io “che si erge come affermazione di capacità di scegliere l’Assoluto”, come diceva Cornelio Fabro, riflettendo su Kierkegaard, quell’io che si ostina a vivere, mentre dovrebbe morire, mentre “è meglio che muoia… per il popolo” (Gv. 11, 50), è un pericolo mortale. E’ il sassolino di Davide contro Golia e i Filistei; è l’inerme Mosè contro Faraone ed il suo esercito. Alfie e Vincent devono tacere al più presto, sebbene non proferiscano parola, perché essi ricordano che “in materia di fondamentali diritti umani nulla può essere al di sopra dell’uomo, tranne Dio… Una casta o una professione che voglia governare gli uomini in queste cose è come se il mio occhio destro pretendesse di comandarmi o la gamba sinistra di portarmi via con sé. E’ pazzia” (Chesterton).