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GAUDETE ET EXSULTATE

Una esortazione, tante citazioni sbagliate (non a caso)

Bonaventura, Tommaso, Agostino e anche il Catechismo: alcuni passaggi chiave dell'Esortazione apostolica sulla santità riportano citazioni parziali che distorcono il significato degli autori.

-IL SILENZIO DELLA GRANDE STAMPA di Andrea Zambrano

Ecclesia 11_04_2018
Gaudete et Exsultate

Come era già accaduto con Amoris Laetitia per san Tommaso, anche nell’esortazione apostolica Gaudete et Exsultate (GE), presentata lunedì, si devono purtroppo riscontrare alcune citazioni “creative” per sostenere affermazioni e tesi altrimenti senza agganci con la tradizione.

Cominciamo dal paragrafo 49, dove addirittura si deve segnalare una tripletta. Siamo nella parte dell’Esortazione dedicata ai pelagiani, quella dove il Papa più volentieri picchia su quelli che considera le minacce più gravi nella Chiesa. Il Papa se la prende con coloro che «si rivolgono ai fedeli dicendo che con la grazia di Dio tutto è possibile», ma «in fondo sono soliti trasmettere l’idea che tutto si può fare con la volontà umana». In questo modo «si pretende di ignorare che “non tutti possono tutto”». Il rinvio alla nota 47, indica il riferimento all’opera di san Bonaventura Le sei ali dei serafini ed al fatto che tale citazione dev’essere intesa nella linea del Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), paragrafo 1735 (quello dedicato all’imputabilità di un’azione). Subito dopo si cita san Tommaso, per sostenere che «in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia»; ed infine sant’Agostino, per rilanciare la tesi del bene possibile, già sostenuta abbondantemente in Amoris Laetitia (AL), e che il libro di don Aristide Fumagalli sulla teologia morale di papa Francesco (della famosa collana maldestramente sponsorizzata da Viganò) mostra essere funzionale alla possibilità di assolvere e ammettere alla Comunione chi continua a vivere more uxorio (per l’analisi del libro di Fumagalli rimandiamo ad un prossimo articolo).

E’ chiaro che la presenza della grazia, come dice Tommaso, «non risana l’uomo totalmente» (I-II, q. 109, a. 9, ad. 1); ma qui Tommaso sta spiegando che l’aiuto della grazia attuale («essere mosso da Dio a ben operare») è necessario anche per chi ha già l’abito della grazia santificante, perché nell’uomo la carne continua ad essere debole. Ma che la grazia non risani l’uomo totalmente non significa affatto che l’uomo possa trovarsi in situazioni per cui, con l’aiuto della grazia, gli sia impossibile osservare i comandamenti di Dio. Che è esattamente la linea interpretativa di AL che “autorizza” – ovviamente in certi casi - atti propriamente coniugali tra persone che coniugi non sono.

Che il testo di GE giochi sull’ambiguità, risulta abbastanza evidente dalle citazioni omesse o mozzate. Si veda la citazione dell’opera di san Bonaventura, scritta per esporre le virtù di un superiore religioso. La frase riportata è la seguente: «Non tutti possono tutto», espressione ripresa dal Siracide e presentata da Bonaventura per ricordare ai superiori di non esasperare con rimproveri coloro che sono in difficoltà: «si sopportino le loro avversioni e le loro fragilità con animo paziente». Questa raccomandazione dev’essere compresa non alla luce del paragrafo del Catechismo, che tratta dell’imputabilità di un’azione (il quale non c’entra niente nel contesto dello scritto del santo francescano, ma che è invece rivelativo di dove si voglia andare a parare), ma a quanto nel capitolo appena precedente viene affermato (II, 9), e cioè che «prima di tutto siano impedite e condannate le trasgressioni dei comandamenti di Dio; quindi le trasgressioni dei precetti inviolabili della Chiesa, etc.». Ma di questo non c’è traccia nell’Esortazione.

A sant’Agostino spetta una sorte peggiore. Il testo tratto da La natura e la grazia è così riportato al § 49 di GE: «Dio ti invita a fare quello che puoi e “a chiedere quello che non puoi”». Fine. Il testo integrale è però il seguente: «Dio dunque non comanda cose impossibili, ma comandando ti ordina sia di fare quello che puoi, sia di chiedere quello che non puoi! E vediamo ormai da dove viene all'uomo il potere e da dove gli viene il non potere... Io dico: "Certamente dipende dalla volontà che l'uomo non sia giusto, se lo può per natura; ma sarà la medicina a dare alla natura dell'uomo il potere che non ha più per il vizio"».

Il testo integralmente riportato rende chiaro che è proprio la grazia a rendere possibile quello che la natura non riesce a fare. E che cosa ordina Dio all’uomo di chiedere, perché ottenga ciò che non può? Lo spiega il Concilio di Trento, che riporta proprio questa affermazione di Agostino: «Nessuno deve fare propria quella temeraria espressione, colpita dai padri con l’anatema, secondo la quale i comandamenti di Dio sono impossibili da osservarsi per l’uomo giustificato. “Dio, infatti, non comanda l’impossibile; ma quando comanda ti ammonisce di fare quello che puoi, di chiedere quello che non puoi”, e ti aiuta affinché tu possa… Quelli infatti che sono figli di Dio, amano il Cristo; quelli che lo amano… osservano la sua parola, cosa senz’altro possibile con l’aiuto di Dio» (DH 1536).

Dio dunque aiuta perché si possa, ciò che umanamente non si può; i comandamenti non sono impossibili da osservare. Di questo non c’è traccia in GE, che invece si preoccupa non di incoraggiare a confidare nella grazia, ma di tirare scappellotti ai nuovi pelagiani, che vengono persino rimproverati di fidarsi poco della grazia. Certo, pensare di poter osservare la legge senza la grazia è atteggiamento tipicamente farisaico, come ricordava Veritatis Splendor (VS), 104. Ma la soluzione non è rimproverare quelli che sostengono che con la grazia è possibile osservare i comandamenti di Dio, anche in situazioni che sembrano impossibili. E’ invece altrettanto farisaico un altro atteggiamento quanto mai attuale, richiamato da VS, 105: «A tutti è chiesta grande vigilanza per non lasciarsi contagiare dall'atteggiamento farisaico, che pretende di eliminare la coscienza del proprio limite e del proprio peccato, e che oggi si esprime in particolare nel tentativo di adattare la norma morale alle proprie capacità e ai propri interessi e persino nel rifiuto del concetto stesso di norma». Per esempio, come quando si dissolve la norma nei casi singoli.

L’atteggiamento cristiano sta in uno slancio superiore che riconosce al contempo la propria miseria, l’esigenza della santità di Dio e la sua misericordia che rende possibile all’uomo ciò che con le sue sole forze è impossibile: «Accettare la “sproporzione” tra la legge e la capacità umana, ossia la capacità delle sole forze morali dell'uomo lasciato a se stesso, accende il desiderio della grazia e predispone a riceverla» (VS, 105).

Non meno grave è anche il caso del § 80 di GE che inaugura il commento alla beatitudine evangelica dei misericordiosi: «Matteo riassume questo in una regola d’oro: “Tutto quanto vorrete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (7,12). Il Catechismo ci ricorda che questa legge si deve applicare “in ogni caso”, in modo speciale quando qualcuno “talvolta si trova ad affrontare situazioni difficili che rendono incerto il giudizio morale”».

La legge della misericordia dev’essere dunque applicata in ogni caso, soprattutto nelle situazioni difficili. Gli articoli del Catechismo qui richiamati (note 71 e 72) non dicono proprio così. Il n. 1787 non ricorda solo che la coscienza a volte può trovarsi in situazioni difficili da discernere moralmente, ma anche che in questi casi la persona «deve sempre ricercare ciò che è giusto e buono e discernere la volontà di Dio espressa nella Legge divina». Per questo motivo, il numero successivo insegna che «alcune norme valgono in ogni caso», come riportato in GE, ma prima della regola d’oro si afferma che «non è mai consentito fare il male perché ne derivi un bene». Curiosamente dall’esortazione sulla santità spariscono il riferimento alla legge divina ed al fatto che il male non possa mai essere fatto.

Ma troviamo la distorsione più grave al § 106: «Non posso tralasciare di ricordare quell’interrogativo che si poneva san Tommaso d’Aquino quando si domandava quali sono le nostre azioni più grandi, quali sono le opere esterne che meglio manifestano il nostro amore per Dio. Egli rispose senza dubitare che sono le opere di misericordia verso il prossimo, più che gli atti di culto». E si riporta il testo della II-II, q. 30, a. 4, ad 2: «Noi non esercitiamo il culto verso Dio con sacrifici e con offerte esteriori a vantaggio suo, ma a vantaggio nostro e del prossimo: Egli infatti non ha bisogno dei nostri sacrifici, ma vuole che essi gli vengano offerti per la nostra devozione e a vantaggio del prossimo. Perciò la misericordia con la quale si soccorre la miseria altrui è un sacrificio a lui più accetto, assicurando esso più da vicino il bene del prossimo».

Per la verità Tommaso si domandava «se la misericordia sia la più grande delle virtù» e conclude che… «la misericordia non è la più grande delle virtù»! Perché, spiega Tommaso, «nell’uomo, che ha come superiore Dio, la carità che unisce a Dio, è superiore alla misericordia, che supplisce alle deficienze del prossimo». La misericordia è più grande «fra tutte le virtù che riguardano il prossimo», ma non in assoluto. E la risposta 2, riportata nell’Esortazione, spiega semplicemente e coerentemente perché la misericordia è superiore alle opere cultuali, tra le virtù che riguardano il prossimo (e non Dio).

Era doveroso ricordare che per Tommaso la più grande virtù è la carità, perché ci unisce a Dio. E l’amore di Dio si compie nell’osservanza della sua parola (cf. Gv. 14, 23) ed è la verifica dell’amore ai fratelli. Spesso infatti si richiama, giustamente, al fatto che l’amore del prossimo realizza l’amore di Dio ed è perciò compendio della legge, ma ci si dimentica che l’amore a Dio – il solo che va amato “con tutto” - è condizione e prova del nostro amore al prossimo, come ricorda san Giovanni: «Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti, perché in questo consiste l'amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti e i suoi comandamenti non sono gravosi» (1Gv. 5, 2-3).

Quindi dire che «il criterio per valutare la nostra vita è anzitutto ciò che abbiamo fatto agli altri. La preghiera è preziosa se alimenta una donazione quotidiana d’amore. Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità…» (§ 104), chiedendo il sostegno di san Tommaso è una manovra perlomeno discutibile... Anche perché bisognava almeno ricordare che Tommaso spiega che la tanto dimenticata virtù di religione «è superiore a tutte le altre virtù morali» (II-II q. 81, a. 6), a motivo del fatto che ci mette in rapporto a Dio ed è particolarmente legata proprio alla carità;

Infatti «la religione si avvicina a Dio più strettamente che le altre virtù morali, poiché compie degli atti che in modo diretto ed immediato sono ordinati all’onore di Dio». Tra questi atti, come spiega il Catechismo (2095 ss.) ci sono l’adorazione, la preghiera, il sacrificio, le promesse e i voti.

E’ strano che questo non venga richiamato in un’esortazione sulla santità, visto che Tommaso spiega che «la religione si identifica con la santità» (II-II, q. 81, a 8, s.c), perché in entrambi i casi «l’anima umana applica a Dio se stessa e i propri atti»; nel caso della religione principalmente per «gli atti che si riferiscono al servizio di Dio», mentre per la santità «anche per tutti gli atti delle altre virtù che l’uomo riferisce a Dio», tra cui certamente le opere di misericordia.

Questo ordine delle cose non si ritrova in GE, che anzi fa affermazioni unilaterali come quella del § 107: «Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia». O ancor peggio quella del § 26: «Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio... Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione».