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CENTO ANNI DOPO

Tutti eredi di Sturzo. Ma c'è poco di cui rallegrarsi

La statura morale e intellettuale di don Luigi Sturzo è indiscutibile, ma gli esiti di quel suo "appello ai liberi e forti" di cento anni fa sono tutt'altro che positivi: è iniziato allora il cammino di un progressivo distacco del criterio della fede dalla politica. Vedere oggi i tanti - anche di opposte visioni - che vogliono far rivivere quell'esperienza con nuovi appelli "ai liberi e forti" non può non lasciare perplessi.
- CATTOLICI E MODERNITA', LA SFIDA DI DEL NOCE di Luca Del Pozzo

Politica 19_01_2019
Don Luigi Sturzo

Il centesimo anniversario della nascita a Bologna del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo, avvenuto il 18 gennaio 1919, porta con sé tali enormi nodi da sciogliere – storici, politici e teologici - che l’entusiastico invito a ricollegarsi al “popolarismo” cui si assiste in questi giorni da varie parti del mondo cattolico – anche contrastanti tra loro – suona superficiale, ingenuo e forse strumentale. Il fatto che si richiamino a quell’evento Francesco Occhetta a nome de “La Civiltà Cattolica”, il “Popolo della Famiglia” e il nuovo cosiddetto “partito dei vescovi” significa che alle grandi domande sollevate da questi cento anni di presenza politica cattolica si preferisce non dare risposte. Soprattutto ad una domanda in particolare: il 18 gennaio 1919 iniziava una storia vincente o perdente?

L’esito politico immediato della nascita del PPI fu, a giudizio di molti, negativo. Sia Ernesto Buonaiuti a quei tempi che Norberto Bobbio ai nostri tempi hanno osservato che alle elezioni del 1919 il neonato partito di cattolici (non dei cattolici) tolse voti ai liberali ma non così tanti da poter impedire l’avvento al potere di altri partiti nazionali tra i quali, da lì a poco, quello fascista.

E l’esito politico a più lungo raggio? A questo proposito è bene ricordare il giudizio di Antonio Gramsci che, nella sua spietata durezza, coglie però il nucleo centrale del problema. Secondo il fondatore del Partito Comunista Italiano, i popolari avrebbero modernizzato le classi contadine e, così facendo, le avrebbero consegnate nelle mani dei comunisti. Detto in altri termini: i popolari avrebbero emancipato le classi popolari dal loro “mondo religioso” e le avrebbero iniziate alla moderna società secolarizzata che eliminava la religione dalla pubblica piazza. La conduzione delle masse verso il secolarismo integrale e quindi l’ateismo, obiettivo dei Comunisti italiani per realizzare la loro rivoluzione democratica, richiedeva la preventiva manovalanza dei cattolici popolari. Nel passaggio al partito di cattolici, le valenze antimoderne dell’Opera dei Congressi sarebbero evaporate e il distacco della politica dalla religione, già avviato col patto Gentiloni nel 1913, avrebbe trovato la sua continuità.

Comunque la si pensi del rapporto tra il PPI e il partito della Democrazia Cristiana nato nel 1943, ossia se questo sia sorto in continuità con il partito di Sturzo o piuttosto sulle sue ceneri, risulta difficilmente confutabile la diagnosi di Pietro Scoppola nel suo libro “La nuova cristianità perduta” del 1986, giudizio perfettamente in linea con quello gramsciano ed enunciato da un insospettabile cattolico progressista della “Lega Democratica” quale egli era: la Democrazia Cristiana ha transitato il mondo cattolico dentro la democrazia moderna edonista, radicale e individualista che con la “democrazia cristiana” della Graves de communi di Leone XIII non aveva niente a che fare. Si tratta della società che Augusto Del Noce avrebbe poi chiamato “opulenta” e “irreligiosa”, nella cui fase terminale viviamo noi oggi e le cui tappe principali di avanzamento portano tutte il marchio cattolico.

Questi giudizi non riguardano la statura morale ed intellettuale di Luigi Sturzo: basterebbe solo esaminare il monumentale “Lessico sturziano” pubblicato da Rubbettino nel 2013 per rendersene conto, oppure l’Epistolario con il fratello Mario, vescovo di Piazza Armerina, o leggere la sua “Sociologia del soprannaturale”. Non riguardano nemmeno l’impegno generoso di tante generazioni di cattolici popolari. Questi giudizi pongono invece il serio problema del rapporto tra il cattolicesimo politico iniziato nel 1919 e la modernità, un rapporto dagli esiti deludenti, se consideriamo che oggi è difficile parlare di aurora mentre molti parlano invece di eclissi, di estenuazione e di consunzione tranquilla. Un rapporto che progressivamente ha sciolto il riferimento religioso dentro la “laicità” della politica. Principio, questo, già presente nell’”Appello ai liberi e forti” come anche, nonostante le diversità, nel “Codice di Camaldoli” e via via in seguito.

Nel lungo e tortuoso percorso di questi cento anni che ci separano dal congresso di Bologna del PPI, i cattolici hanno definitivamente imparato a non avere paura della politica, superando gradualmente ma radicalmente ogni forma vecchia e nuova di non expedit; nel frattempo però la politica non ha smesso di avere paura della religione cattolica e di volerne decisamente fare a meno, combattendola. Le due tendenze erano convergenti: accettare sempre più coerentemente e pienamente la laicità della politica produceva l’inutilità del riferimento religioso nella presenza politica dei cattolici e quindi il loro “suicidio” come tali. Il processo verso questo esito fu accompagnato da una poderosa revisione teologica del rapporto tra Chiesa e mondo che ne giustificava le conclusioni.

Commemorare oggi i fatti del 1919 non solo per commemorarli ma addirittura per farli rivivere con nuovi appelli “ai liberi e forti” senza valutare queste conclusioni lascia molto perplessi.