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CASSAZIONE

Sì al referendum, ora la partita può cominciare

La Corte di Cassazione ha convalidato le oltre 500.000 firme raccolte per il referendum costituzionale d’autunno, Ora il pallino passa nelle mani del governo, che dovrà decidere i tempi della chiamata alle urne da domenica 2 ottobre a domenica 22 dicembre. Si apre una difficile partita, non solo per Renzi.

Politica 09_08_2016
Il Palazzo della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha convalidato le oltre 500.000 firme raccolte per il referendum costituzionale d’autunno, senza utilizzare tutto il tempo che aveva a disposizione, cioè i 30 giorni previsti fino al 15 agosto. Ora il pallino passa nelle mani del governo, che dovrà decidere i tempi della chiamata alle urne, in un arco di tempo che va da domenica 2 ottobre a domenica 22 dicembre.

In molti ricorderanno che il premier, ospite di Fabio Fazio, una domenica sera su Rai 3, auspicò tempi stretti per la consultazione referendaria, arrivando addirittura a immaginare il 2 ottobre come la data migliore. Nel frattempo, le cose sono cambiate. Ora è Renzi a prendere tempo e ad avere paura delle urne. Tutti i sondaggi più accreditati danno il fronte del “No” in netto vantaggio e lui, che ha legato il suo futuro politico alla vittoria dei “Si”, tentenna. 

Ma la partita è assai più complessa e passa attraverso una serie di variabili: il ruolo del Quirinale, la riforma della legge elettorale, la ricomposizione del centrodestra e l’immagine del Movimento Cinque Stelle, accreditato di una forte ascesa elettorale ma penalizzato, sul piano mediatico, dai passi falsi di Raggi a Roma e Appendino a Torino. Il presidente Mattarella, che, fino a due mesi fa, sembrava essersi autorelegato a una dimensione notarile del suo incarico, ora appare sceso in campo a tutela della stabilità di governo. Il saggio Sergio teme che la spavalderia possa costare cara all’incauto premier e sta predisponendo le condizioni affinché il referendum possa tenersi dopo la messa al riparo della legge di stabilità e dei conti pubblici, e quindi tra fine novembre (20 o 27) e inizi dicembre. 

A quel punto, anche l’urto di una bocciatura nelle urne per la riforma Boschi non suonerebbe come un “de profundis” per la legislatura, ma porrebbe le basi per una revisione costituzionale maggiormente inclusiva e meno lacerante, figlia di una condivisione più ampia tra tutte le forze politiche, della quale lo stesso Quirinale potrebbe farsi garante. Lo stesso Renzi, in qualità di segretario del Pd, anche se si dimettesse da premier, come ha più volte dichiarato di voler fare in caso di sconfitta al referendum, potrebbe essere coinvolto nella formazione di un “governo di scopo”, mirato a varare una nuova legge elettorale (sono concrete le possibilità che l’Italicum non passi l’esame della Consulta oppure che venga modificato da un accordo ampio e trasversale tra le forze politiche).

Il fattore tempo, secondo Renzi, gioca a favore del “Si” per due ragioni: in caso di slittamento a novembre-dicembre del voto referendario, il governo avrebbe più margini per annunciare e inserire nella legge di stabilità novità fiscali e finanziarie in grado di aumentare il consenso popolare rispetto all’esecutivo; inoltre, le esperienze amministrative di Roma e Torino, con tutte le difficoltà che stanno incontrando sia la Raggi che la Appendino, potrebbero togliere smalto alla propaganda grillina per il “No”.

Ma si tratta di calcoli assolutamente aleatori, perché in realtà le incognite sulla strada dell’esecutivo rimangono comunque molteplici, dal sistema bancario in affanno alla questione libica, dalla situazione esplosiva nel mondo scolastico all’allarme pensioni, senza contare le fibrillazioni crescenti dentro il Pd, con un fronte sempre più nutrito di parlamentari decisi a votare (e a far votare) “no”.

Gli oppositori antirenziani chiedono di mettere mano all’Italicum prima del voto popolare sulla riforma Boschi, perché temono di essere spazzati via e di non essere ricandidati in caso di vittoria del “Si”. In quest’ipotesi, infatti, il premier-segretario potrebbe veleggiare indisturbato fino alla scadenza naturale (o anticipata al 2017) della legislatura e selezionare i candidati per il futuro Parlamento tra i sostenitori del “Si” e quindi tra i suoi fedelissimi, emarginando la sinistra dem.

La principale novità delle ultime settimane, però, riguarda il campo di gioco del centrodestra, che tenta una problematica riorganizzazione sotto la guida di Stefano Parisi, candidato sindaco a Milano, sconfitto per un soffio,  ma in grado di ricompattare tutte le anime di quello schieramento, da Salvini ad Alfano. Berlusconi gli ha affidato un mandato chiaro: creare il nuovo fronte dei moderati, partendo da Forza Italia, ma allargando, se possibile, il perimetro di gioco anche a quanti non vanno più a votare perché delusi da un centrodestra rissoso al suo interno e privo di leadership. 

La strategia dell’ex manager Fastweb è chiara: condurre una campagna “morbida” per il “No” al referendum, per fare in modo che, dopo quel voto popolare, a prescindere dai suoi esiti, Alfano e Verdini (che sono per il “si”) e Meloni, Salvini e le varie correnti di Forza Italia (che sono per il “No”) possano tornare a parlarsi e ad allearsi. D’altra parte, se si votasse oggi, il centrodestra non andrebbe al ballottaggio e dovrebbe accontentarsi di fare da ago della bilancia tra la sinistra e i pentastellati. Con Parisi può tentare almeno una dignitosa risalita e giocarsela. E l’eventuale vittoria dei “No” al referendum potrebbe contribuire a formare una nuova classe dirigente, anche di centrodestra.