Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santi Filippo e Giacomo il Minore a cura di Ermes Dovico
TERRORISMO

Scene di terrore mediorientale a Sydney

Un terrorista solitario, Man Haron Monis, estremista islamico ma non legato ad alcuna organizzazione criminale, ha tenuto in scacco Sydney per un'intera giornata, costringendo il mondo intero a restare col fiato sospeso. E' la nuova frontiera del terrorismo targato Isis: atti di micro-terrorismo, non meno destabilizzanti.

Esteri 16_12_2014
Sydney

All’improvviso, un angolo di conflitto mediorientale si è trasportato a Sydney, in Australia, dall’altra parte del mondo.

Alle dieci del mattino di lunedì (ora australiana) la bandiera nera degli jihadisti ha fatto la sua surreale comparsa sulla vetrina di un Lindt Chocolate Café, nel centro della metropoli australiana. Non era uno scherzo, né una provocazione. Ad issarla erano due ostaggi terrorizzati, mentre gli altri clienti apparivano al pubblico lungo tutte le vetrine con le mani alzate. Dietro di loro c’era un fanatico, che li minacciava con le armi in pugno e che, a detta degli ostaggi (quelli che sono riusciti a fuggire o a comunicare con sms durante l’assedio) aveva con sé almeno quattro bombe, due delle quali erano state piazzate fuori dal locale e all’interno. Cinque ostaggi sono riusciti a fuggire nel primo pomeriggio di lunedì. L’assedio è durato fino per sedici lunghe ore. Alla fine, dopo il fallimento di ogni trattative, la polizia australiana ha fatto irruzione alle 2:20 di notte (ora australiana) ponendo rapidamente fine al sequestro.

Il terrorista è stato ucciso nel corso del raid della polizia. Ma è riuscito a trascinare con sé, nella tomba, almeno due australiani, un uomo e una donna, entrambi trentenni. Il bilancio potrebbe allungarsi perché altri tre ostaggi e un poliziotto sono feriti. Tre degli ostaggi fuggiti prima del blitz avrebbero fornito agli agenti informazioni dettagliate sul terrorista e sull’interno del locale. Dati che si sono poi rivelati preziosi per la liberazione di tutti gli altri.

Man Haron Monis è l’autore dell’attacco. Ha agito da solo. Tenere a bada una trentina di ostaggi, per un uomo solo, si è rivelata una missione impossibile e questo spiegherebbe la fuga di così tanti suoi prigionieri, ancora prima del blitz. Cosa voleva? Fra le condizioni poste dal terrorista, nel corso del negoziato, c’era anche quella di poter avere una bandiera dell’Isis, da esporre nel locale. Non è stato accontentato, ma la matrice dell’atto di terrorismo, in questo modo, è stata rivelata. Sempre fra le condizioni del sequestratore, c’era anche un incontro con il premier australiano Tony Abbott.

Il sequestratore, iraniano, non era arrivato in Australia da poco. Era presente nella grande isola dal 1996, quando aveva ottenuto l’asilo politico. Da allora non si era affatto dimostrato un bravo cittadino: indagato dal 2013 per l’omicidio dell’ex moglie, arrestato per diverse aggressioni sessuali. Era già libero su cauzione, sorvegliato dalla polizia e tutt’altro che silente sulle sue intenzioni: predicava la jihad ed era considerato una testa calda della locale comunità musulmana. Un musulmano veramente atipico: uno sciita convertito all’islam sunnita che, nel suo sito, si definiva anche esperto di “astri, numeri, magia nera, meditazione”, un “curatore spirituale”, facendo presa su un pubblico occidentale appassionato di spiritualità esotiche. Fra le donne che, stando alle accuse, avrebbe aggredito, ci sarebbero soprattutto sue clienti. La sua idea di jihad era comunque molto chiara: nel 2002 aveva mandato lettere di insulti alle famiglie dei caduti australiani in Afghanistan e ai parenti delle vittime dell’attentato di Bali. Attaccava i politici sui social network, si considerava uno “sceicco” radicale. Nonostante tutto, è riuscito ad armarsi con un fucile a pompa, organizzarsi e sequestrare un locale in pieno centro a Sydney. Il tutto sotto gli occhi della polizia e nonostante questo sia un periodo di allerta elevata in Australia.

I nervi erano già molto tesi da quelle parti. La polizia australiana, giusto questo settembre, era riuscita a sgominare un’altra cellula terroristica, che si richiamava esplicitamente all’Isis e intendeva rapire e decapitare (in diretta video) ostaggi australiani rapiti a caso. Era solo uno dei vari tentativi di attacco, evidentemente non era l’ultimo né l’unico. Difficile capire, dagli elementi che sono stati pubblicati al momento, dove abbiano fallito l’intelligence e la polizia, perché non abbiano prevenuto l’attacco di Sydney, non riuscendo a salvare la vita di almeno due cittadini. 

Il problema è proprio nella prevenzione. Come fare a tenere sotto controllo ogni musulmano che fa discorsi radicali, se non perseguirlo (come stava già accadendo) per atti criminali che ha commesso? Per il primo aspetto (l’ideologia) non c’è alcuna prevenzione possibile. Man Haron Monis ha fatto capire in tutti i modi quali fossero le sue intenzioni nei confronti del Paese che lo stava ospitando sin dal 1996. Ma, per qualunque legislazione di uno Stato di diritto, non è possibile arrestarlo per motivi ideologici. Era sotto processo perché sospettato di violenze contro donne e anche dell’omicidio della moglie. In quel caso l’arresto è stato effettuato, ma, sempre in base alla legge australiana, è potuto tornare anche a piede libero. E armarsi. Come sempre, i terroristi approfittano della libertà garantita dalle nostre leggi, per infiltrarsi e distruggerci dall’interno. Questo è solo l’ennesimo caso.

Il grande impegno delle autorità, a partire dal premier Tony Abbott e dei media è volto a smitizzare quanto accaduto. “Lupo solitario” o anche “figura isolata” è nella media di tutti i titoli dedicati all’argomento Man Haron Monis. La dichiarazione di Abbott è incredibile: “Non conosciamo ancora le cause di quanto sta accadendo”, ha dichiarato, mentre a poche centinaia di metri dalla sua sede, nel Lindt Chocolate Café già sventolava da ore la bandiera nera degli jihadisti. Le associazioni musulmane dell’Australia hanno subito preso le distanze dal “lupo solitario”. Ma quest’ultimo, che postava messaggi e video a raffica, sui social network, nel corso della sua “eroica” azione, non puntava affatto alle associazioni ufficiali. Puntava dritto alla pancia dei musulmani radicalizzati, dei neo-convertiti, degli estremisti pronti a partire per il Califfato. E, a giudicare dalla risposta del Web, ha colto nel segno, con un’azione condotta apposta nel centro istituzionale ed economico di Sydney, esattamente di fronte alla sede di una televisione nazionale. E’ un “matto isolato”, nel senso che non ha alle spalle una cellula (almeno per quel che si sa finora), non ha un passato di addestramenti in Pakistan, Afghanistan, nel Caucaso o nei campi di battaglia della Siria. Ma comunque si è inserito in una nuova rete globale di jihadisti, fatta di azioni solitarie e della loro propagazione nei media e social media. Dire che l’attentatore di Sydney “non c’entra nulla con l’Isis” è quantomeno azzardato: “non c’entra” solo perché non prende direttamente gli ordini dal Califfo e dalla sua cerchia di collaboratori. Ma ha comunque risposto alla chiamata dell’Isis.

Il terrorista “solitario” australiano ha risposto alla chiamata alle armi dello scorso settembre. Dopo aver promesso che “Conquisteremo Roma, spezzeremo le vostre croci, renderemo schiave le vostre donne”, il portavoce dello Stato Islamico, Abu Muhammad al-Adnani ha anche chiesto esplicitamente a tutti i musulmani che vivono in Occidente: “Se potete uccidere un miscredente americano o europeo, o uno spregevole e sporco francese, o un australiano, o un canadese, o qualunque altro infedele che viva in una nazione infedele che ha scatenato la guerra, compresi i cittadini che sono entrati nella coalizione contro lo Stato Islamico, allora affidatevi ad Allah, e uccidete (gli infedeli, ndr) con ogni mezzo e metodo possibili. Non aspettate consigli, non cercate l’approvazione di nessuno. Uccidete gli infedeli, siano essi militari o civili, perché essi rispondono alla stessa legge. Entrambi sono infedeli. Entrambi sono da considerarsi colpevoli di aver scatenato la guerra”.

Al-Adnani ci aveva fatto una promessa chiara: “Pagherete caro il prezzo nel momento in cui camminerete per strada, guardandovi attorno per paura dei musulmani. Non vi sentirete al sicuro nemmeno nei vostri letti. Pagherete caro il prezzo quando questa vostra crociata collasserà, dopodiché noi vi colpiremo in casa vostra e voi non sarete più in grado di fare del male a nessuno”.

Man Haron Monis non è il primo che risponde a questa chiamata. Un mese e mezzo fa, il 20 ottobre, un auto guidata da un convertito canadese, Martin Couture-Rouleau, investe e uccide un soldato (e ne ferisce un altro) a Saint Jean sur Richelieu, nel Quebec. Due giorni dopo, nella capitale del Canada, a Ottawa, un altro musulmano canadase Michael Zehaf Bibeau (di madre canadese e padre libico) assassina a colpi di fucile il militare Nathan Cirillo, di guardia al monumento ai caduti. Poi entra nella sede del Parlamento per cercare di fare una strage. Abbattuto dal sergente Kevin Vickers prima che potesse nuocere ai parlamentari, Michael Zehaf Bibeau ha comunque dimostrato ai canadesi quanto fosse facile attaccare il Paese fin nel cuore delle sue istituzioni. Il 25 ottobre, un altro convertito all’islam, Zale Thompson, di New York, attacca quattro poliziotti a colpi d’ascia, in una stazione della metropolitana. Due agenti rimangono gravemente feriti, prima che il terrorista sia a sua volta abbattuto.

Tutti questi terroristi non sono coordinati fra loro, ma proprio per questo sfruttano le caratteristiche della sorpresa, dell’imprevedibilità, in alcuni casi anche dell’insospettabilità dell’aggressore. Il risultato finale è simile a quello di un attacco di mega-terrorismo, sia per la visibilità che per l’insicurezza che sono in grado di infondere nelle nostre opinioni pubbliche. I morti sono ancora pochissimi, ma la paura cresce. L’Isis sa di poter contare sa che questa tecnica può funzionare e va quasi a colpo sicuro. Due anni prima della nascita del Califfato, un singolo giovane uomo Mohammed Merah, aveva ucciso otto persone a Tolosa e Montauban, nel Sud della Francia. Fra questi anche un paracadutista francese, assassinato l’11 marzo 2012, il 15 marzo altri tre paracadutisti a Montauban, il 19 marzo ha ucciso un rabbino e tre bambini nella scuola ebraica Ozar Hatorah, per poi morire dopo un lungo assedio nel suo appartamento a Tolosa. Una lunga scia di sangue lasciata da un solo uomo, che era stato sì in Siria a fare esperienza, ma teoricamente non era collegato con alcuna cellula terroristica organizzata. Stessa cosa dicasi per i due fratelli di origine cecena, ma cresciuti negli Stati Uniti, Dzhokar e Tamerlan Tsarnaev: nella mattina del 15 aprile 2013, senza avere alle spalle alcuna carriera terroristica, hanno piazzato due bombe artigianali vicino al traguardo della Maratona di Boston. I due ordigni, esplodendo uno dopo l’altro, hanno provocato tre spettatori. Una quarta vittima è un poliziotto, ucciso tre giorni dopo mentre cercava i due giovani terroristi. Appena un mese dopo, il 22 maggio 2013, un soldato britannico, Lee Rigby, in piena Londra e in pieno giorno, veniva aggredito, pugnalato e decapitato da due uomini, due cittadini britannici di origine nigeriana, cristiani convertiti all’islam, Michael Adebolajo e Michael Adebowale. E poi si arriva alla strage più recente, prima della guerra al Califfato, quella di Bruxelles: anche in questo caso, un singolo uomo, Mehdi Nemmouche, rientrato dalla Siria, ha ucciso quattro persone al museo ebraico di Bruxelles. E in Israele, dopo la guerra a Gaza, è scoppiata una nuova guerra a bassa intensità, una "Intifadah delle auto" in cui terroristi improvvisati travolgono civili ebrei con i loro veicoli, o li aggrediscono a colpi di pugnale e asce, come nel caso della strage nella sinagoga a Har Nof, Gerusalemme.

Il metodo non è nuovo, l’arma neppure. I “guerriglieri” sono in casa nostra, sono armati con oggetti che noi non consideriamo armi, rispondono a chiamate che noi non conosciamo e non capiamo. L’Isis ha deciso di sfruttarli a suo vantaggio, non potendosi ancora permettere attacchi in grande stile. Cerca di trasformare le nostre città in un pezzo di Siria o Iraq, con scene di ostaggi catturati e decapitazioni. A Sydney, almeno in parte ci è riuscito.