Scampia, l’utopia della sinistra dietro il degrado delle Vele
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Celebrati ieri tra le polemiche i funerali delle vittime della tragedia del 22 luglio scorso, resta la presenza di un mostro architettonico che risale agli anni Sessanta ed è figlio dell’ideologia di sinistra. Che ha trasformato Scampia in un ghetto metropolitano.
Adesso che anche i funerali sono stati celebrati, tra polemiche e una piazza vuota, è calato di nuovo il sipario su Scampia. Nelle ore immediatamente successive alla tragedia dello scorso 22 luglio, tanti, tra politici e personaggi dello spettacolo, nel napoletano e non, hanno speso una parolina sui social per piangere l’ennesima disgrazia: il cedimento di un ballatoio di collegamento nella “Vela Celeste” che ha provocato tre morti e 12 feriti. Tra gli sfollati, circa 800, c’è chi quegli appartamenti li ha occupati, anche in tempi recenti.
Perché su Scampia rimane l’ombra della cattiva coscienza della sinistra, un’ombra che racconta una vicenda più profonda. La storia delle Vele di Scampia, periferia Nord di Napoli, inizia nei primi anni Sessanta, con il progetto di Francesco “Franz” Di Salvo per sette palazzoni residenziali dalla forma triangolare, a vela appunto. Sono gli anni in cui la Cassa per il Mezzogiorno traccia il modello di espansione dell’intervento dello Stato nell’economia. E rappresenta l’esemplificazione del fatto che fare impresa non è mai solo una questione di denaro, che in quegli anni arriva a pioggia dallo Stato: un’infrastruttura, per funzionare, ha bisogno infatti di piccoli proprietari attenti al bene comune.
La Cassa, creata negli anni ’50 dalla Democrazia cristiana con il sostegno del maggior partito di opposizione, il Partito comunista italiano, attira nuove fonti di profitto: l’edilizia, i mercati generali e gli appalti.
L’urbanizzazione di Scampia scaturisce, in larga misura, dall’attuazione del Piano per l’edilizia economica. Ed è sovvenzionata, in applicazione della Legge 167/1962 (lo Stato invitava i Comuni con più di 50.000 abitanti ad indicare aree per la realizzazione di residenze popolari), con tanto di ridimensionamento di superfici e di vani, specchio di quell’ideologia rossa che vuole ridisegnare le case, quindi il modo di vivere e anche le famiglie. La Cassa per il Mezzogiorno lanciò, allora, il concorso vinto dall’architetto futurista Franz Di Salvo: le Vele, già nei prospetti, sono una cattedrale, brutta, nel deserto.
Scampia, fino agli anni Sessanta, semplicemente non esisteva. Era un borgo rurale, a nord di Napoli, a vocazione agricola. C’è, addirittura, chi la ricorda come un paesaggio ridente pieno di alberi da frutto. È proprio là che guardano le amministrazioni di sinistra per realizzare l’enorme complesso residenziale capace di dare sfogo al centro della città. Di Salvo, prima delle Vele, aveva fatto il suo esordio a Napoli con la progettazione, per l’edilizia economica e popolare, nel 1945, in collaborazione con altri architetti, del Rione Cesare Battisti a Poggioreale: all’epoca, rappresentava il paradigma «della nuova maniera di pensare» la residenza sociale, com’è stato scritto. Sarebbe bastato quello per indicargli altri lidi in cui andare ad operare, e invece la Cassa per il Mezzogiorno gli affidò anche l’incarico di realizzare il complesso residenziale a Scampia. Costruito tra il 1962 e il 1975, in un modello architettonico di due blocchi a gradoni, alti 45 metri, separati da un vuoto centrale, collegati da scale, ascensori e ballatoi che avrebbero dovuto favorire le relazioni tra gli abitanti.
Di Salvo s’ispirò all’Existenzminimum, la corrente architettonica per la quale l’unità abitativa del singolo nucleo familiare va ridotta al minimo indispensabile. La spesa costruttiva deve essere molto contenuta e gli spazi comuni vanno privilegiati, nell’ideale di costringere l’integrazione della collettività.
Il Sessantotto, anche a Napoli, ormai, aveva occupato le facoltà di ingegneria e architettura. L’utopia che veniva coltivata, e rivenduta, consisteva nell’idea che l’emancipazione dei più poveri sarebbe avvenuta non per una loro volontà, personale e concreta, di crescita, ma per l’intervento di uno Stato ingerente, potente, e certamente buono, che, coadiuvato da “illuminati”, avrebbe accompagnato Napoli, e la sua periferia, verso la “città futura”.
Le Vele di Scampia condividono la stessa utopia sociale del riferimento-madre, le Unités d’habitation di Le Corbusier, in Francia. Le Corbusier ripudiava l’architettura tradizionale e concepì la frantumazione dell’unità familiare per generare disgregazione in una nuova concezione degli spazi con largo uso di cemento armato e ferro. Ecco allora le Vele. Un progetto che non sarà mai neanche ultimato e, in ragione di fondi venuti a mancare, ulteriormente ridimensionato per edificare cellette monoaffaccio. Scampia, così, ha acquistato le caratteristiche di un ghetto metropolitano. Tutt’intorno, il nulla assoluto. Dei sette palazzoni, su un’area di quattro chilometri quadrati, quattro sono stati demoliti uno dopo l’altro, nel 1997, 2000, 2003 e 2020. Alti quattordici piani, avrebbero dovuto ospitare fino a 1200 nuclei familiari. I censimenti raccontano che, nel 1991, vi abitavano 44.000 persone; nel 2001, 42.000; nel 2011, 39.000. Includendo gli abusivi, in Il territorio speranza, testo del 2002 che raccoglie gli studi di diversi professori di urbanistica della Federico II, si legge che a un certo punto si contavano circa 100.000 inquilini. Il triplo di quanti ne sarebbero dovuti stare.
Presentate come il capolavoro estetico capace di realizzare l’ideale di vita comune, le Vele vengono inaugurate nel 1975. Nel frattempo, a Napoli, il Partito comunista è riuscito ad eleggere il suo sindaco. Tra il 1976 e il 1980, circa un quarto degli abitanti del centro storico viene trasferito a Scampia. E dopo il terremoto che devasta l’Irpinia e scuote anche Napoli, tantissimi appartamenti vengono occupati illegalmente insieme alle cantine degli alloggi. “Occupazioni di necessità” che, come racconterà nella sua autobiografia, Confesso che mi sono divertito, il sindaco Maurizio Valenzi non disdegnava. L’occupazione delle ‘cellette’, comunque, è ancora in corso.
A Scampia manca tutto, anche le strade e i lampioni. Eppure il clan dei Di Lauro si accorge prima di tutti, forse, che Scampia è un baricentro perfetto rispetto a tutti i principali assi autostradali. Spazi grandi e anonimi compongono un quartiere dove non c’è mai nessuno per strada, mini appartamenti cupi, sui quali si può vigilare, e grandi cantine a fungere da bunker e nascondigli: le Vele sembrano disegnate su misura per diventare la più grande piazza di spaccio d’Europa. Il resto della storia la conoscono tutti, ormai.
Ma la verità è che su Scampia non sono stati realmente accesi i riflettori. È stato solo spettacolarizzato un quartiere, diventato così mitico, in Italia come all’estero. Se si domanda di Napoli ad un adolescente di Bolzano, Londra e Parigi ti risponde: «le Vele». E i protagonisti sono diventati degli eroi che, infatti, sono stati emulati.
L’ideologia dietro il progetto architettonico che ha contribuito a brutalizzare non pochi, insieme alla droga, la criminalità, l’orrore della dipendenza, emerge anche dal racconto di un poliziotto. In Dentro le vele - Diario di uno sbirro (Marotta & Cafiero editori, 2009), l’ispettore capo Lorenzo Stabile, che dal 2003 coordina la squadra di Polizia investigativa del Commissariato di Scampia, mostra da vicino come si vive in quei palazzoni. Ed emerge l’altro lato della vicenda umana. Che non è irreversibile. I bambini compaiono in tante delle storie che l’ispettore capo riporta e mostrano la distanza con l’utopia che c’era all’origine. Scelgono da soli da che parte stare, sempre. Come G., all’epoca un bambino di quattro anni, che chiede di stare con il poliziotto, non con mamma e papà, per raccontare di una verità che si riconosce istintivamente.
Scampia oggi è nient’altro che il poster che vede la réunion della sinistra, urbanistica-culturale-politica. Tutti insieme e sorridenti. Nessuno può cambiare la verità e non si riqualifica ciò che nasce per uno scopo ideologico preciso.