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Rupnik dimesso dai Gesuiti ma solo per "disobbedienza"

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L'artista-teologo ha ricevuto un decreto di espulsione dall'ordine, per il «rifiuto ostinato di osservare il voto di obbedienza», avendo rifiutato il trasferimento imposto. Bene ma non benissimo: gli abusi e gli scandali non contano? Senza contare che continua a rimanere sacerdote.
- SI CHIUDE IL REBUS: GÄNSWEIN TORNA A CASA DA DISOCCUPATOBorgo Pio

Ecclesia 16_06_2023 Español

Il 14 giugno, il Delegato per le Case e le Opere Interprovinciali della Compagnia di Gesù a Roma, P. Johan Verschueren, ha fatto recapitare a P. Marko Ivan Rupnik il decreto di dimissione dall’Ordine, come previsto dal can. 699 §1.

Secondo quanto riporta Federica Tourn, P. Verschueren avrebbe espresso in una lettera alle vittime dell’ormai ex-gesuita sloveno la ragione di questa decisione, ossia il «suo rifiuto ostinato di osservare il voto di obbedienza». Lo sapevano ormai anche i sassi che Rupnik non si curava delle restrizioni imposte dal suo superiore; la più recente trasgressione sembra essere stata una sua trasferta in Bosnia e in Croazia, per definire il completamento di un lavoro già avviato nella chiesa francescana di Mostar e pianificare un nuovo progetto di restauro per la cappella del palazzo vescovile di Hvar (Lesina). Forse Rupnik, come l’amministratore disonesto della nota parabola, si stava preparando il terreno, sapendo che il padrone avrebbe chiesto finalmente conto.

Silere non possum ha poi pubblicato una comunicazione di P. Verschueren, nella quale rivela come a Rupnik sia stato imposto «di cambiare di comunità e di accettare una nuova missione» come «ultima possibilità come gesuita di fare i conti con il proprio passato e di dare un segnale chiaro alle numerose persone lese che testimoniavano contro di lui, per poter entrare in un percorso di verità».

Rupnik avrebbe scelto la strada di un «reiterato rifiuto», mettendo i suoi superiori di fronte alla decisione obbligata di procedere per la dimissione dall’Ordine (ma Rupnik non aveva chiesto perdono, ragione per cui gli era stata tolta la scomunica?). Segno che evidentemente la soluzione della dimissione dall’Ordine non gli appare particolarmente invisa, considerati i suoi numerosi protettori che gli troverebbero subito una sistemazione più consona al suo “desiderio di libertà”.

Ora, Rupnik avrà trenta giorni di tempo, a norma del can. 700, modificato il 2 aprile di quest’anno, per presentare ricorso, che eventualmente avrebbe effetto sospensivo. Vi era stata in precedenza un’ulteriore modifica con il Motu Proprio Communis Vita, del 2019, che aveva in sostanza eliminato la necessità, per l’entrata in vigore del decreto, della conferma della Santa Sede, rendendo così il decreto in vigore fin dal momento della notifica da parte del superiore competente. Una modifica forse provvidenziale, dal momento che ha finalmente permesso che potesse essere preso nei confronti di Rupnik qualche più serio provvedimento, senza incontrare ulteriori ostacoli presso la Santa Sede, come quelli arcinoti della rimozione della scomunica latae sententiae e della caduta in prescrizione dei reati commessi da Rupnik nei confronti di nove donne. 

Fatto sta che se Rupnik non dovesse presentare ricorso, non sarà più ufficialmente un gesuita e a quel punto dovrà trovare un vescovo che lo incardini; sarà interessante vedere quale dei suoi amici verrà alla luce, magari proprio nella diocesi di Roma. In ogni caso, fino a quel momento non potrà esercitare il ministero sacerdotale.

Qualche considerazione. Questa dimissione potrebbe mettere la parola fine sulla vicenda Rupnik. E lo farebbe senza che mai sia stato condotto un regolare processo canonico a suo carico. Il che significa che la verità non verrà accertata fino in fondo, lasciando nell’ombra tutti coloro che si sono resi in qualche modo complici o protettori dell’archistar. È piuttosto evidente che nella Chiesa cattolica tentare un processo sia diventato un reato contro la misericordia. E così l’ingiustizia trionfa.

Si rimane attoniti anche di fronte al fatto che l’unica sanzione canonica adeguata per quanto commesso da Rupnik, ossia la dimissione dallo stato clericale, non sia stata adottata, nemmeno alla luce del fatto che l’accusato non intenda dare il minimo cenno di ravvedimento. È più che una chiacchiera da corridoio che il veto a riguardo sia stato posto dal Papa in persona. Se Rupnik dovesse trovare un vescovo che lo incardini, sarebbe semplicemente un ex-religioso, come tanti altri, ma potrebbe continuare ad esercitare il suo ministero, in forza del quale ha abusato di diverse donne e ha sparso la sua delirante pornoteologia.

Secondo punto. La comunicazione di P. Verschueren ha ricordato che il «dossier relativamente alle numerose denunce di ogni tipo che ci sono giunte, provenienti da fonti molto diverse e per fatti avvenuti in un arco temporale di oltre 30 anni a riguardo di padre Rupnik» è stato considerato da parte dei Superiori della Compagnia di Gesù come avente «un grado di credibilità… molto alto». Denunce di ogni tipo che, stando a quanto emerso pubblicamente in tutti questi mesi, hanno a che vedere con il sesto comandamento e con il voto di castità che Rupnik, come religioso, ha pronunciato. Allora è più che lecito domandarsi come mai a far scattare la dimissione dall’Ordine si sia dovuta attendere l’ostinata disobbedienza.

La lesa maestà nei confronti dei superiori sembra dunque avere decisamente più peso che non la violazione del voto di castità, reiterata per oltre trent’anni e giustificata teologicamente; più decisiva che non l’inganno e l’abuso perpetrati nei confronti di una ventina di donne, molte delle quale consacrate a Dio; più determinante della irritante e stomachevole assoluzione del complice de sexto. Dunque profanazione, blasfemia, violazione del voto di castità non erano sufficienti per prendere provvedimenti?
 

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