Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
L'ANNIVERSARIO

Riccardo Pampuri, un santo a Caporetto. Vero italiano

Quando gli austro-tedeschi sfondarono a Caporetto, l’intero fronte italiano si squagliò come neve al sole, arretrando di parecchie miglia. Gli «eroi», gli spaccamontagne del giorno prima se la filarono di gran carriera, e con tale velocità che non badarono neppure a quel che si lasciavano alle spalle. Pampuri fu l’unico a restare al suo posto.

Attualità 26_10_2017

L’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, più conosciuto come Fatebenefratelli, fondato nel 1537 da san Juan Ciudad (che, da consacrato, aggiunse «di Dio» al suo nome), ha creato l’ospedale moderno e dato molti santi, non pochi dei quali medici. L’ultimo, medico pure lui, è san Riccardo Pampuri (1897-1930). Ebbene, i Fatebenefratelli, con un comunicato stampa, ci ricordano il centenario di Caporetto (24 ottobre 1917), ma soprattutto che in quegli eventi c’era anche lui, Erminio Filippo Pampuri, nato nella lombarda Trivolzio e studente di medicina all’università di Pavia.

Avendone pubblicato a suo tempo la biografia (San Riccardo Pampuri, prefazione di mons. Luigi Giussani, Mondadori), poi riedita da Piemme nel 2007 (Il dottor carità. Vita di san Riccardo Pampuri), ho qualche informazione. Erminio Pampuri era decimo di undici figli e rimase presto orfano (il padre morì in un incidente e la madre di malattia). Fu allevato dagli zii, che non avevano figli. Erminio fin da piccolo fu attratto dalla religione, e questa sua singolare predilezione non si può spiegare razionalmente. Ci sono stati, tra i santi, ex peccatori, ex soldati, personaggi convertitisi in età adulta e gente di ogni tipo umano. Ci sono anche quelli che, da sempre, hanno puntato alla santità, senza che interessasse loro altro.

Ebbene, Pampuri era uno di questi. Non si sposò mai e si dedicò esclusivamente al suo mestiere, che lui concepiva come una missione. Come medico vinse una condotta nella vicina Morimondo. Qui si guadagnò il soprannome di «dottor carità», sia per la dedizione con cui esercitava, sia perché dai meno abbienti non si faceva pagare, sia perché, non di rado, era lui a lasciare qualche sommetta, dopo la visita, a chi non poteva comprarsi neppure le medicine. La cosa gli procurò qualche critica da parte dei colleghi che in certi periodi venivano a sostituirlo. Ma lui era così. Era sempre stato così.

Quando dovette andare in guerra non provò nemmeno a scansare la naja. Avrebbe potuto, essendo di costituzione gracile ed avendo già perso un fratello in quella stessa guerra. Ma quando c’era la possibilità di fare del bene lui non era tipo da tirarsi indietro. Così, dati i suoi studi, fu inquadrato nella Sanità. Non deve essere stato facile, in un ambiente già non facile di suo, per un cattolico fervente, come quello della caserma e della trincea. I cattolici non erano ben visti, nell’Italia di allora. La Conciliazione tra Stato e Chiesa sarebbe venuta solo nel 1929; intanto i cattolici si erano manifestati, prima del conflitto, per la neutralità, seguendo le perorazioni del papa san Pio X. Poi, però, prevalso l’interventismo, avevano fatto il loro dovere e vestito la divisa. Ma, come detto, non c’era ancora il Concordato e il clero non aveva alcun privilegio: i seminaristi dovettero andare a combattere e fu già tanto se si riuscì a far sì che i sacerdoti facessero solo i cappellani militari.

Ma l’ambiente era tendenzialmente ostile a gente come Pampuri, specialmente nell’ufficialità. E la roboante propaganda accompagnava quella tremenda guerra, con la sua esaltazione dell’eroismo bellico, i D’Annunzio, i Marinetti, i Mussolini. Si magnificavano perfino quegli «eroi» che, prima di cadere sotto il fuoco, lanciavano contro il nemico la propria stampella in un ultimo soprassalto di odio nazionalistico. Ma l’eroismo cattolico non si misura su quanta gente hai ammazzato, bensì su quanta ne hai salvata. Fu il caso del nostro Pampuri Erminio (non ancora fra Riccardo, nome che avrebbe assunto una volta entrato a far parte dei Fatenebefratelli di Milano).

Quando gli austro-tedeschi sfondarono a Caporetto, l’intero fronte italiano si squagliò come neve al sole, arretrando di parecchie miglia. Gli «eroi», gli spaccamontagne del giorno prima se la filarono di gran carriera, e con tale velocità che non badarono neppure a quel che si lasciavano alle spalle. Pampuri fu l’unico a restare al suo posto. Era rimasto solo in mezzo a un intero campo medico completo di attrezzature e medicine. Era lì, a marcire sotto la pioggia invernale, e non importava a nessuno dei poveracci che, senza quel materiale, sarebbero impazziti dal dolore a causa della mancanza di morfina o sarebbero addirittura morti privi di medicine adeguate.

Questo è quanto pensò Pampuri e non esitò, da solo, a caricare tutto su un carro tirato da un bue ed avviarsi per portare in salvo tutta quella preziosa roba. Alla velocità che può avere un bue ci mise ventiquattro ore per arrivare, sempre sotto la pioggia battente, e grande fu lo stupore quando lo videro spuntare dopo che nessuno ne sapeva più niente. Quell’impresa, eroica e solitaria, gli valse una decorazione al valor militare a guerra finita. E anche una pensione, che però lui, italiano serio, rifiutò: a lui non serviva e, senz’altro, quello Stato finanziariamente dissanguato dalla guerra per darla a lui l’avrebbe tolta a qualcun altro che ne aveva veramente bisogno.

Ma gli valse anche un brutta pleurite, che non l’avrebbe lasciato mai più e l’avrebbe portato a morire a trentatré anni l’1 maggio 1930. Il suo corpo fu riportato a Trivolzio, in quel di Pavia, dove ancora oggi riposa e da dove dispensa grazie specialmente alle coppie (era specializzato in ginecologia).