Repubblica e quell’appello tardivo alla libertà di stampa
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La scena dei giornalisti di Repubblica, nel pieno della crisi del proprio gruppo editoriale, saliti sul palco della Cgil per invocare libertà di stampa e pluralismo appare controversa. Perché il quotidiano fondato da Scalfari è stato per 50 anni parte di un sistema ben preciso.
La crisi del gruppo Gedi e la possibile vendita dei suoi gioielli editoriali, La Repubblica e La Stampa, segna un passaggio storico non solo per il mondo dell’informazione italiana ma anche per quell’idea di giornalismo militante che per decenni ha trovato proprio in Repubblica il suo principale megafono.
La scena dei giornalisti di Repubblica saliti sul palco della Cgil per protestare contro l’incertezza occupazionale e per invocare la libertà di stampa e il pluralismo dell’informazione è potente sul piano simbolico ma al tempo stesso inevitabilmente controversa, se non apertamente contraddittoria. Per quasi cinquant’anni il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ha rappresentato una precisa linea ideologica, perfettamente inserita nei rapporti di forza del potere politico ed economico del Paese, sostenuta da editori forti, influenti e tutt’altro che estranei ai palazzi che contano. Il giornalismo militante, quando era funzionale a una parte politica ben definita, non è mai stato percepito come un problema dalla redazione né come una minaccia al pluralismo. Anzi, è stato rivendicato come missione.
Gli anni dell’antiberlusconismo viscerale restano emblematici: campagne quotidiane, titoli ossessivi, le celebri “dieci domande” al Cavaliere, il racconto insistito del caso Lario e di quello che veniva definito “ciarpame”, in una logica di conflitto permanente che poco aveva a che fare con l’equilibrio dell’informazione e molto con la battaglia politica. Lo stesso si potrebbe dire del feroce anticraxismo, condotto mentre figure come Ciriaco De Mita intrattenevano rapporti solidi e privilegiati con Scalfari, in un intreccio tra informazione e potere che consentiva al giornale di fare il bello e il cattivo tempo senza troppe remore.
In questo contesto, l’appello odierno alla libertà di stampa, proprio nel momento in cui la barca imbarca acqua e l’editore storico decide di dismettere, suona a molti come tardivo e in parte patetico. La foto dei giornalisti di Repubblica sul palco con la Cgil strappa più di un sorriso amaro per la sua incoerenza storica, perché arriva dopo decenni in cui quel modello di giornalismo non solo non ha mai messo in discussione il sistema che lo sosteneva, ma ne è stato uno degli ingranaggi più efficaci.
Sullo sfondo, intanto, c’è una trattativa che ha ormai raggiunto le stanze di Palazzo Chigi. Il gruppo Gedi, controllato dalla famiglia Agnelli-Elkann, starebbe valutando la cessione ad Antenna Group, riconducibile all’armatore greco Thodòris Kyriakou, imprenditore già attivo nel settore dei media in diversi Paesi europei e considerato vicino a leader della destra internazionale, dal premier greco Kyriakos Mitsotakis fino a Donald Trump, con rapporti cordiali anche con Giorgia Meloni, che in passato è stata sua ospite. Un profilo che trasforma la vendita in un caso non solo industriale ma apertamente politico. Il sottosegretario all’Informazione e all’Editoria, Alberto Barachini, ha incontrato prima i vertici del gruppo e poi il comitato di redazione di Repubblica, mostrando irritazione per la scarsa trasparenza della trattativa, appresa – a quanto pare – dal governo e dai giornalisti stessi solo a mezzo stampa. La richiesta di chiarimenti su eventuali partecipazioni extraeuropee pesa anche alla luce dell’investimento da 225 milioni effettuato tre anni fa dal gruppo Mbc, riconducibile al fondo sovrano saudita Pif, nella società Antenna Greece.
Il timore, tutt’altro che infondato, è che il nuovo editore sia interessato soprattutto a Repubblica, lasciando la Stampa a un destino di scorporo o di successiva svendita, con un colpo durissimo per il giornale torinese e per il suo radicamento territoriale. Non a caso la homepage della Stampa ha scelto di tenere in primo piano un dossier sulla libertà di informazione nel mondo, quasi a voler ribadire una propria identità distinta in un momento di grande incertezza. Intorno alla vicenda si sono mossi anche il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, e il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, mentre la Sentinella del Canavese, altra testata del gruppo Gedi, rischia di essere ceduta separatamente, con ulteriori interrogativi sull’occupazione e sul legame con il territorio.
Nel frattempo, dai cortei della Cgil arrivano parole dure contro autocrati, strapoteri economici e finanziari e forze politiche pronte ad approfittare della crisi delle istituzioni. Parole che suonano solenni ma che inevitabilmente si scontrano con la storia recente di Repubblica, un giornale che è vicino a compiere cinquant’anni senza certezze sul futuro e che scopre improvvisamente il valore del pluralismo, proprio ora che non può più darlo per scontato. La domanda resta sospesa e scomoda: dov’era questa preoccupazione quando l’antiberlusconismo occupava ogni spazio e il dissenso interno al campo progressista veniva trattato come eresia? La libertà di stampa è un principio fondamentale, ma invocarla solo quando si perde la protezione degli editori forti rischia di apparire meno come una battaglia civile e più come l’ultimo riflesso di un’egemonia culturale ormai in declino.


