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Referendum sul lavoro: pessimi nel metodo e nei contenuti

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I referendum sul lavoro promossi dalla Cgil e sostenuti dal Pd dell’8-9 giugno, sono fragili, irrazionali, inopportuni sia nel metodo sia nei contenuti, tanto sul piano tecnico-giuridico quanto su quello politico-sindacale. Vediamo perché.
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Politica 04_06_2025

Volendo sintetizzare i referendum sul lavoro promossi dalla Cgil, destinati a svolgersi l’8-9 giugno, si potrebbero definire fragili, irrazionali, inopportuni sia nel metodo sia nei contenuti, tanto sul piano tecnico-giuridico quanto su quello politico-sindacale. Non si intende qui entrare nella diatriba tra astensione e partecipazione al voto, ma i quattro quesiti meritano, comunque, una sonora bocciatura da parte dell’elettorato. Naturalmente, affermazioni così perentorie richiedono motivazioni proporzionate.

Occorre iniziare dalla scelta dello strumento referendario sui temi implicati. In Italia i referendum abrogativi ex art. 75 Cost. in materia di lavoro si sono perlopiù rivelati storicamente infruttuosi. Talora, il popolo stesso ha respinto la proposta e il referendum si è ritorto in qualche modo contro i medesimi promotori (si rammenti quello del 1985 sull’indennità di contingenza, voluto dal Pci); altre volte, con l’accoglimento del quesito si è determinato un difetto di regolazione normativa, cui hanno dovuto supplire il legislatore o la giurisprudenza (si pensi al referendum del 1995 sui contributi sindacali); altre ancora, il successo si è rivelato meramente apparente, come le vicende successive hanno mostrato (emblematico il referendum, sempre nel 1995, sulle rappresentanze sindacali aziendali, che ha creato più problemi di quelli che intendeva risolvere); infine, la disaffezione popolare ha condotto, nelle più recenti occasioni, all’invalida consultazione per il mancato quorum (nel 2000 e nel 2003, in tema di licenziamenti, proprio come oggi). Senza dire dei quesiti non ammessi dalla Corte costituzionale, cosa di cui la stessa Cgil, promotrice dei referendum oggi in commento, ha fatto esperienza pochi anni or sono e proprio su una delle materie oggi sottoposte al voto (cfr. la sentenza della Corte cost. n. 26/2017).

Più di una sono le ragioni di tale insuccesso. Tra esse, va in particolare osservato che, probabilmente, l’elevato livello di tutele legislative nel rapporto di lavoro, raggiunto nel nostro ordinamento, ha reso controindicato uno strumento che permane puramente abrogativo. Il referendum è stato così adoperato per sortire vantaggi di portata limitata, contribuendo a diffondere un senso di superfluità dell’istituto referendario.

Un altro elemento di debolezza, oggi, è nella scelta della Cgil di agire in modo isolato, senza il coinvolgimento delle altre grandi confederazioni, il che ne ha determinato la mancata collaborazione. Soprattutto, la Cisl ha compreso, proprio quanto al metodo, che adoperare il referendum su questioni di particolare complessità tecnica è soluzione inadeguata e divisiva. Bene ha fatto la stessa, all’opposto, a impegnarsi in battaglie, certo più impegnative, ma propositive, come quella della proposta di legge sulla partecipazione dei lavoratori nelle imprese, riscuotendo l’importante successo dell’approvazione parlamentare. Peccato che la stampa abbia preferito dar risalto ai referendum, che, certo, meglio si prestano alla polemica politica.

Non inganni poi il numero, per sé importante, delle firme per i referendum raccolte dalla Cgil, perché oggi facilitate dalla digitalizzazione (dunque, non è affatto scontato che si raggiunga il quorum di partecipanti al voto).

Plurimi motivi, dunque, avrebbero dovuto indurre la principale confederazione sindacale dei lavoratori a prudenza.

Si considerino ora, brevemente, i quesiti. Con il primo, si intende abrogare il d.lgs. n. 23/2015 in tema di licenziamenti, noto al pubblico come Jobs Act. Si tratta di una riforma voluta dal governo Renzi, destinata ad applicarsi ai lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015. I promotori intendono così tornare all’applicazione, per le imprese medio-grandi, dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (si badi, non secondo il testo originario, ma quello modificato nel 2012 dalla riforma Fornero). Va anzitutto osservato come tale quesito sia stato presentato dalla Cgil in modo non veritiero, come se con il d.lgs. n. 23/2015 sia generalmente impedita la reintegrazione sul posto del lavoro del prestatore licenziato ingiustificatamente.

La Cgil ha omesso due punti fondamentali, ovvero:
1) che con più sentenze della Corte costituzionale, a partire dal 2018, è stata ripristinata la sanzione della reintegrazione in termini del tutto analoghi all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori;
2) che, in assenza di reintegrazione, con la riforma del Jobs Act ad opera del governo “giallo-verde” nel 2018, l’indennizzo per il lavoratore può giungere sino a 36 mensilità di risarcimento, contro i 24 dell’art. 18. Basterebbe questo – tralasciando altri dettagli, per cui si consenta il rinvio qui – per evidenziare come il referendum sia dannoso per gli stessi interessi dei lavoratori. Né, alla luce delle statistiche occupazionali, è dimostrabile in alcun modo come la riforma del 2015 abbia reso più precario il mercato del lavoro. Si spiegano così anche i malumori della sinistra riformista dinanzi a questo primo quesito (con una rottura, dunque, pure del fronte politico di opposizione).

Il secondo quesito è correlato al primo: con esso, si desidera che i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese siano indennizzabili dal giudice senza limiti massimi di risarcimento (oggi il limite ordinariamente è di 6 mensilità, aumentabili sino a 14 in casi specifici). Stupisce, per vero, che la Corte costituzionale non abbia dichiarato inammissibile un referendum che sortirebbe l’effetto paradossale di gravare i datori più piccoli (in sintesi, quelli titolari di unità produttive sino a 15 dipendenti) di conseguenze patrimoniali più onerose di quelle medio-grandi. Si tratterebbe dunque di un esito irragionevole, indubbiamente da scongiurare. Peraltro, sul punto, la Corte costituzionale aveva già di recente sollecitato il legislatore ordinario a una attenta, complessiva rivisitazione della disciplina: cosa non possibile, evidentemente, attraverso un referendum.

Con il terzo quesito si vorrebbe abrogare la regola vigente per cui è possibile assumere un lavoratore a termine, sino a 12 mesi (comprensivi di eventuali rinnovi o proroghe), senza indicare nel contratto la specifica ragione oggettiva per cui lo si recluta, appunto, a tempo determinato. In caso di successo del referendum, ogni contratto a termine (anche il primo), e di qualunque durata, verrebbe assoggettato al vincolo di causalità. Occorrerebbe dunque indicare la motivazione dell’assunzione a termine, tra quelle consentite dai contratti collettivi: il giudice, in caso di contenzioso, avrebbe il potere di verificarne la specificità, l’esistenza in concreto e la sussistenza di un nesso causale tra la ragione indicata e le mansioni svolte dal lavoratore. Qui pure, per vero, la Corte costituzionale avrebbe dovuto censurare un referendum che a ben vedere ha un carattere, non abrogativo, ma sostanzialmente propositivo, il che non è consentito dall’art. 75 Cost.

Nel merito, l’accoglimento del quesito condurrebbe a una disciplina ancora più rigida di quella prevista dalla prima in materia, quella della legge del 1962, pensata per un contesto socio-economico totalmente diverso e irripetibile. I promotori sostengono che l’attuale normativa favorisca, ancora una volta, il precariato: ma, qui pure, e anche a non considerare le esigenze di flessibilità delle imprese di oggi, i dati occupazionali smentiscono la tesi secondo cui in Italia vi sarebbe uno stock eccessivo e incontrollato di contratti a termine. Piuttosto, vi è la seria preoccupazione che, con regole severe e che in passato hanno dato adito a cospicui contenziosi giudiziari (facendo felici solo gli avvocati), le imprese abbiano maggiori remore a effettuare proposte di lavoro.

Il quarto quesito assume, forse più degli altri, un sapore punitivo per il mondo imprenditoriale. Esso inerisce alla disciplina della responsabilità del committente nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore, cioè dell’impresa a cui siano stati affidati opere o servizi. Per il diritto vigente, l’imprenditore committente è responsabile in solido, oltre che per le retribuzioni e i contributi, anche per i danni subiti dai dipendenti dell’appaltatore nel periodo dell’appalto (per la parte eventualmente non indennizzata dall’Inail).

Vi è però una eccezione: la responsabilità in solido è oggi esclusa (e, dunque, unico responsabile è l’appaltatore per i propri dipendenti) per i danni “conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici” (art. 26, comma 4, d.lgs. n. 81/2008). La regola ha una ratio condivisibile: non è ragionevole addebitare a un imprenditore violazioni della sicurezza sul lavoro, commesse da un altro imprenditore, con riguardo a rischi che il primo non possa conoscere o controllare, perché attinenti al settore specifico del secondo.

Si ipotizzi che il panettiere di fronte a casa (committente) affidi la riparazione dell’impianto elettrico guasto a un imprenditore (appaltatore) del settore. In caso di successo del referendum, dell’infortunio subito dal lavoratore elettricista, durante le riparazioni, potrebbero rispondere sia il datore di lavoro/appaltatore, sia il panettiere/committente. E’ un quesito, dunque, con un contenuto profondamente ingiusto, che finirebbe per colpire proprio gli appalti genuini, quelli in cui, cioè, si esternalizzano parti del processo produttivo a imprese specializzate.

L’auspicio, pertanto, è che l’8-9 giugno i referendum sul lavoro della Cgil vengano respinti.

*Docente di diritto del lavoro, Università di Pavia