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AUTORI DEL '900

Rebora, la poesia brucia

L'ardente ricerca della verità nei componimenti del grande letterato e sacerdote.

Cultura 18_02_2012
rebora
Sottolineiamo subito una particolarità della figura di Clemente Rèbora (1885-1957) che è, oltre che poeta, sacerdote. Se nel Medioevo la maggior parte degli scrittori e degli uomini colti sono uomini di chiesa tanto che «chierico» è sinonimo di «letterato», ad un certo punto si assiste ad un graduale affrancamento dell’uomo di lettere dalla chiesa. Nel panorama letterario degli ultimi secoli, per intenderci, famoso poeta ordinato sacerdote è Giuseppe Parini. Degli altri raramente viene ricordato il nome.

Rèbora, invece, è stato, a detta di Gianfranco Contini, una «tra le personalità più importanti dell’espressionismo europeo» per il «vocabolario […] pungente, il […] registro d’immagini e metafore arditissimo». La maturazione religiosa di Rèbora è graduale. Clemente proviene, infatti, da una famiglia borghese milanese improntata ad «una spiritualità di tipo mazziniano» (Giovanni Mussini). La fiducia illuministica di cui è imbevuto secondo la quale «basti la storia, con le sue scoperte e il suo progresso, a salvare l’uomo» si incrina nel 1909. Possiamo considerare questa una prima conversione. Si dedica dopo il 1910 all’insegnamento e alla scrittura di cui è frutto la sua prima raccolta poetica Frammenti lirici. Vi emergono «l’ambizione alla totalità propria della poesia di Rèbora» (Giovanni Boine), l’insoddisfazione per l’omologazione, un desiderio di grandi ideali, una sorta di pessimismo storico leopardiano, l’incapacità dell’uomo di decifrare la realtà. Vi si avverte «la crisi di Dio dinanzi a una storia che lo emargina in uno spazio remoto e indifferente» (G. Mussini) cosicché all’uomo non resta che prodigare la sua bontà. Di qui il carattere spiccatamente morale della raccolta rimarcato dalle frequenti allusioni ad autori robusti quali Parini, Pascoli, Leopardi e, su tutti, Dante. Una seconda conversione è quella maturata negli anni della Grande guerra, dopo il 1915. L’esperienza come soldato (che durerà poco, perché Rèbora sarà presto riformato in seguito ad un’esplosione ravvicinata), la lettura dei romanzieri russi, uno spiccato interesse per le religioni sono la prolusione alla seconda raccolta Canti anonimi in cui la «distanza tra reale e ideale, tra terra e cielo, uno e tutto si fa più netta e ormai più specifica» (G. Mussini).

La conversione vera e propria
al cattolicesimo avviene nel 1929, fatto curioso perché in quello stesso periodo matura la conversione di un altro grande della nostra letteratura, ovvero Giuseppe Ungaretti. Ricevuta la prima comunione e poi la cresima, nel 1931 diventa novizio e nel 1936 è nominato sacerdote. Di questo periodo sono poche poesie religiose e, poi, il silenzio poetico fino alla rinascita dopo la malattia cerebrale che lo costringerà a letto nel 1952. Di questi anni Montale scriverà: «È un conforto pensare che il calvario dei suoi ultimi anni – la sua distruzione fisica – sia stato per lui, probabilmente, la parte più inebriante del suo curriculum vitae». Nascono le raccolte Curriculum vitae e Canti dell’infermità, pervase dallo stesso ardore, ma da meno inquietudine. Ora Rèbora si sente «illuminato, ma inadeguato, ma il fermento di verità è ugualmente ansioso e bruciante» (M. Luzi). Rèbora muore il giorno di tutti i santi del 1957.

Il suo cammino spirituale
è specchio del percorso che l’uomo contemporaneo è tenuto a compiere alla ricerca della verità, liberandosi prima del pregiudizio ideologico e culturale razionalista e positivista di cui è imbevuto e verificando la pretesa della promessa cristiana nella vita: un ritorno alla propria tradizione, vagliata e corroborata nell’esperienza e nelle prove della vita. Testimonianza di questo suo percorso, di questo curriculum vitae, è la magnifica poesia «Speranza» (Poesie religiose) in cui Rèbora scrive: «Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra./ Speravo nel tempo: ma passa, trapassa;/ In cosa creata: non basta, e ci lascia./ Speravo nel ben che verrà, sulla terra:/ Ma tutto finisce, travolto, in ambascia». Il poeta ha fatto l’amara esperienza, propria di chiunque si guardi dentro, della delusione, provata perché ha sperato nelle proprie capacità quasi con delirio di onnipotenza, assaporata quando l’amore per le creature ha mostrato tutta la sua precarietà così come l’ideologia («il ben che verrà, sulla terra») ha palesato la sua inconsistenza.

Qual è il fondamento della sua speranza, quando tutte le illusioni sono crollate? «Ecco la certa speranza: La Croce./ Ho trovato Chi prima mi ha amato/ E mi ama e mi lava, nel Sangue che è fuoco,/ Gesù, l’Ognibene, l’Amore Infinito/ l’Amore che dona l’Amore,/ L’Amore che vive ben dentro nel cuore». Si deve ritornare indietro di un secolo prima di Rèbora, agli Inni sacri del Manzoni, nato nel 1785, esattamente cento anni prima del sacerdote milanese, per leggere versi così infuocati e ardenti d’amore per Cristo. Versi che, però, la critica letteraria ha, talvolta, etichettato come religiosi, escludendoli, quindi, dalla grande poesia. Sono versi che, invece, raccontano di una sofferta esperienza di vita e di un giudizio nuovo su di sé e sulla vita: «Amore di Cristo che già qui nel mondo/ Comincia ed insegna il vivere più buono».

La stessa esperienza è raccontata in «Amor dammi l’amore» (Poesie religiose) in cui Rèbora attesta «Sì, vivere è Cristo», e ancora «Amarci in Te, soave pegno/Del tutto in tutti», affermazioni incomprensibili e percepite come retoriche in un contesto culturale scristianizzato, «mentre rovina il mondo all’AntiCristo». Così in «Gesù il Fedele» (Inni) ancora Rèbora scrive che Lui è «il solo punto fermo nel moto dei tempi,/ in sterminata serie di eventi: il solo Santo che non manca mai,/ che trascende dove ci comprende/ e si fa dono in cima ai nostri guai/ e pareggia la grazia col perdono:/ vero Dio trasumanante/ e a Deità aperto vero uomo». Questi versi sono dedicati al Santo Natale del 1956, scritti a letto, mentre è infermo il 12 settembre, il giorno del S.S. Nome di Maria, come annota il poeta in calce alla poesia.

Occorre semplicità di cuore per riconoscere la propria umana miseria e per gridare e mendicare, così come occorre una semplicità di sguardo per scrivere «Al tempo che la vita era inesplosa» (Canti anonimi) in cui il poeta scrive di quel tempo in cui era ancora bambino e l’amore gli «pareva umana cosa» e si recava da un contadino di nome Carlo: «Ti vedo levar come il mattino/ In verecondia gli occhi/ Consacrando il pensiero/ Al semplice elemento,/ Mentre è bello il silenzio a te vicino». Occorre semplicità per riconoscere che il nostro cuore è in attesa costante di un evento, dell’Evento, anche se noi non ne siamo coscienti: «Dall’immagine tesa/ Vigilo l’istante/ Con imminenza di attesa-/ E non aspetto nessuno» («Dall’immagine tesa» da Canti anonimi). Eppure il poeta è certo: «Deve venire,/ Verrà, se resisto/ A sbocciare non visto,/ Verrà d’improvviso,/ Quando meno l’avverto:/ Verrà quasi perdono/ Di quanto fa morire,/ Verrà a farmi certo/ Del suo e mio tesoro,/ Verrà come ristoro/ Delle mie e sue pene».

Qui è descritta l’urgenza
di una redenzione, di una salvezza che venga da Altro, perché l’uomo non può salvarsi da sé. L’uomo avverte già il suono della venuta del Salvatore: «Forse già viene/ Il suo bisbiglio». La stessa realtà è segno palese di quest’Altro che noi attendiamo, come Rèbora scrive in «Sacchi a terra per gli occhi»: «Qualunque cosa tu dica o faccia/c'è un grido dentro:/non è per questo, non è per questo!/E così tutto rimanda/a una segreta domanda.../Nell'imminenza di Dio/la vita fa man bassa/sulle riserve caduche,/mentre ciascuno si afferra/a un suo bene che gli grida: addio!»