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Questa Roma città aperta alle mafie

Oltre allo scandalo, il funerale di Vittorio Casamonica dovrebbe far paura. Se è stato possibile non prevenire un corteo funebre di quelle dimensioni, possiamo aspettarci di tutto. E sorprende che la chiesa romana dimostri di non aver sviluppato quella resistenza alla mafia che è invece forte nelle diocesi del Sud.

Editoriali 22_08_2015
Funerale di Casamonica, il feretro

Da decenni la criminalità mafiosa dedica una cura particolare - fino alla ostentazione - ai simboli e alle pratiche della religione cattolica, superando senza difficoltà l’evidente contrasto con qualsiasi criterio di verità e di coerenza di vita. La cura cresce, e con essa le manifestazioni esteriori, quando la chiesa diventa il luogo nel quale celebrare eventi significativi riguardanti gli esponenti del clan, e giunge all’apice col funerale. Ciò accade per due ragioni, che si intrecciano: nelle aree di più antico radicamento delle cosche il sentimento e la pratica religiosi hanno ancora consistenza; la pretesa dei mafiosi di dimostrare che la mafia è espressione autentica di quelle zone passa attraverso atti esterni di devozione da parte dei capi e delle rispettive “famiglie”. In tal modo la fede cattolica e i suoi segni più sacri  sono piegati e resi strumento di consenso sociale, pur se in modo blasfemo; nel funerale di un personaggio di rilievo del contesto criminale la cornice religiosa viene usata oltre che per lo scopo generico di mostrare il legame con la fede del popolo, anche per esaltare nello specifico le gesta del defunto. Lo sforzo di lanciare l’orrido messaggio “santo subito”, riferito al boss che ci ha lasciato da qualche giorno, è al tempo stesso un chiaro segnale per coloro che ne proseguono le opere - siete i migliori, avanti così - e per la popolazione, alla quale il rito indica un modello: se non da seguire, certamente da non ostacolare.

Sorprende che su questo fronte - sia pure in modo diverso provincia per provincia e diocesi per diocesi - si siano sviluppate negli ultimi anni sensibilità e reazioni in Sicilia, Campania e Calabria, da parte delle Chiese locali e delle persone oneste: lì dove cosa nostra, camorra e ndrangheta  esistono da secoli, sono radicate e hanno formato mentalità e ambienti; e invece questa sensibilità si sia rivelata clamorosamente assente nella Capitale. Sono anni che in quelle regioni Vescovi coraggiosi affrontano la questione con documenti pastorali e/o con decisioni riguardanti singoli casi: basta ricordare, fra gli altri, quanto hanno detto e fatto l’Arcivescovo di Reggio Calabria mons. Morosini, a proposito delle infiltrazioni criminali nelle processioni, o l’Arcivescovo di Monreale mons. Pennisi, che ha imposto per capi mafiosi le esequie al di fuori di edifici religiosi importanti e senza clamore di folla. Spesso le prese di posizione di questi Pastori sono state e sono appoggiate - ciascuno per la parte di propria competenza - dai rappresentanti dello Stato sul territorio, in primis i prefetti, proprio perché la partita non è soltanto religiosa. E questo - lo si ripete - in contesti certamente più difficili rispetto a quello romano, con confratelli di quei Vescovi che hanno evitato di prendere analoghe posizioni, trincerandosi dietro il “non lo so”, “non mi interesso di queste cose”, “non ho visto nulla di strano”.

Quello che è accaduto giovedì mattina a Roma è stato il festival del “non sapevo”, “non avevo informazioni”, “nessuno lo aveva segnalato”, “se mai me lo avessero detto…”: da parte delle autorità in qualche modo coinvolte, da quelle religiose a quelle della sicurezza. Il fatto è accaduto; è coinciso con una sconcertante affermazione di presenza mafiosa nel cuore della Cristianità, avendo come cornice una delle chiese più grandi della Capitale; non è stato né prevenuto né interrotto; ha realizzato oggi a Roma quello che da qualche anno è ostacolato a Vibo Valentia, a Castellammare di Stabia o a Trapani. A ogni romano e a ogni italiano interessa fino a un certo punto sapere di chi sono le colpe, pur se ci si augura che chi di dovere svolga gli accertamenti necessari; interessa di più capire come fare in modo che gesta simili non si ripetano in futuro.

La prima lacuna, da colmare nei tempi più rapidi, è ammessa senza giri di parole, quasi fosse una scusante, dai responsabili della sicurezza a Roma: l’assenza di informazioni. Nel caso in questione non si trattava di violare sofisticate banche dati per conoscere prima che cosa sarebbe successo: il funerale è stato seguito con video e foto da un buon numero di giornalisti, a conferma che ci si attendeva qualcosa di singolare. D’altronde, se un giorno muore un signore di nome Vittorio Casamonica dovrebbe essere ordinaria amministrazione presidiare in modo discreto il luogo nel quale è custodita la salma, intanto per annotare tutti coloro che le rendono omaggio: sia per avere qualche dato in più sulla mappa di quell’ambiente criminale, sia per aggiornare i profili personali dei singoli soggetti che intervengono; le sorveglianze speciali di pubblica sicurezza si applicano anche in virtù delle frequentazioni malavitose. Recandosi sul posto, sarebbe stato facile raccogliere notizie sul funerale. Se il Questore ha affermato che non ha saputo nulla del rito funebre e del modo in cui si è svolto, vuol dire che questo servizio non l’ha eseguito nessuno. C’era una volta - soprattutto nella Capitale, ma non solo - una rete informativa diffusa che garantiva un circuito di notizie grazie a "sensori ambientali": il portiere del condominio, l’edicolante, il barista, il dipendente dell’hotel; era una rete non visibile ma utile: a essa attingevano i servizi e le forze di polizia per ricostruire scenari, e al tempo stesso per prevenire episodi criminosi. Della rete, in modo più qualificato, faceva parte più d’un vigile urbano, la cui presenza capillare nella città in teoria permette - grazie alla frequentazione dei mercati e degli esercizi commerciali - di recuperare ulteriori dati. Due giorni fa la Polizia municipale ha reso possibile che una grande carrozza trainata da sei cavalli, seguita da un corteo di autovetture di grossa cilindrata, partisse dalla Romanina - che si trova oltre il Grande raccordo anulare - e, attraversando il raccordo, percorresse la via Tuscolana fino alla chiesa di Don Bosco, giungendovi mentre la banda suonava Il Padrino con la scorta di un elicottero! Provate a percorrere su un cavallo qualche centinaio di metri del Gra, con o senza accompagnamento musicale, e vedrete quanto dura…

Come è ingiusto scaricare ogni responsabilità sul parroco di Don Bosco, sarebbe altrettanto riduttivo prendersela solo col Commissariato o con la Stazione dei Carabinieri del Tuscolano: ammesso che i rispettivi dirigenti vengano puniti e trasferiti, resta per intero il problema della pianificazione dell’attività informativa, da affrontare e da risolvere. Se le autorità di sicurezza sostengono di aver appreso dai media un fatto così grave, e così noto da aver fatto accorrere migliaia di persone e un po’ di giornalisti, chi garantisce che siano realmente acquisite le notizie che riguardano la preparazione di attentanti, più volte minacciati e in qualche modo sollecitati al pulviscolo del terrorismo fai-da-te di matrice islamica, presente e radicato in Italia? Resta da affrontare e da risolvere il problema della carenza di uomini e di mezzi nella Capitale: alla vigilia dell’apertura del Giubileo, Roma può contare oggi, fra Polizia e Carabinieri, su 3.000 unità in meno rispetto a quelle di cui disponeva al momento del Giubileo del 2000. Siamo certi che la prevenzione e il contrasto di ogni tipo di criminalità sarà egualmente efficace? Il deficit informativo e quello correlato del personale esigono immediati e consistenti investimenti: dei quali tuttavia non si vede traccia.

Da ultimo. Nel giro di pochi giorni per tre volte in altrettanti quartieri di Roma è accaduto che agenti di polizia, impegnati a eseguire arresti di spacciatori, siano stati bloccati e malmenati da gruppi di abitanti dei quartieri stessi: fatti gravissimi, che avrebbero meritato riflessione e seguito operativo. Invece la loro eco è durata qualche ora sui media e non è successo nulla. Che cosa doveva accadere? Qualcosa che, ripristinando nel rispetto della legge l’autorità dello Stato, sconsigliasse per il futuro comportamenti simili ai responsabili, ai complici e ai conniventi: per esempio, l’esecuzione di perquisizioni a tappeto alla ricerca di armi nelle abitazioni dei pregiudicati dei quartieri stessi, controlli continui e serrati per strada, anche per violazioni amministrative… L’assenza di reazione trasmette un solo messaggio: si può fare; quindi, si può ripetere. Se lo sfarzoso funerale di Vittorio Casamonica resterà senza conseguenze, e se la reazione non avrà il medesimo impatto di immagine che ha avuto il rito blasfemo di due giorni fa, il messaggio sarà che Roma può essere oltraggiata e lo Stato italiano dileggiato senza pagare dazio.