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CASO MEREDITH

Quando la giustizia si incarta

La sentenza di appello sull’omicidio di Meredith Kercher, che aveva mandato assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito per non aver commesso il fatto, ieri è stata annullata a sorpresa dalla Corte di Cassazione. Ora è tutto da rifare.

Editoriali 27_03_2013
Caso Meredith

La sentenza di appello sull’omicidio di Meredith Kercher, che aveva mandato assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito per non aver commesso il fatto, ieri è stata annullata dalla Corte di Cassazione. Tutto da rifare dunque. 

Non vogliamo entrare nel merito della vicenda processuale, ma solo appuntare alcune riflessioni su un dato che lascia perlomeno perplessi.
In primo grado i giudici avevano stabilito la colpevolezza dei due giovani condannando la Knox a 26 anni e Sollecito a 25. In secondo grado la sentenza è stata ribaltata: innocenti senza ombra di dubbio. La Cassazione, accogliendo il ricorso del procuratore generale, rovescia nuovamente la situazione e fa intendere che ci sarebbero prove non di poco conto che inchioderebbero i due imputati.
Il caso Meredith è l’ennesimo esempio di un iter processuale speso schizofrenico che sfocia in una giustizia bipolare. Da qui la domanda del signor Rossi: com'è possibile che un giudice un giorno dica bianco e l’altro giorno un suo collega dica nero per poi infine trovare un terzo magistrato che torni alla versione iniziale? Qui non si tratta di lievi modifiche alla sentenza che nella sua sostanza non muterebbe. Qui in nome nostro – cioè del popolo italiano – si dà della stessa vicenda due interpretazioni opposte e inconciliabili.

Prima di indagare le cause di questa anomalia processuale, è opportuno fare una premessa quasi scontata e che si rifà a un sano realismo antropologico: come diceva San Tommaso, la giustizia umana è imperfetta e sempre sarà imperfetta perché usa strumenti approssimativi – leggi, prove, sentenze, etc. – adoperati poi dagli uomini che, è cosa nota, un giorno sì e l’altro pure sbagliano.

Fatta questa premessa, proviamo a dare una risposta il più convincente possibile all’interrogativo del Signor Rossi.
Un primo dato: solo gli idioti – nel senso greco del termine: cioè i privati cittadini, l’uomo di strada – solo gli idioti pensano ancora che il processo abbia come scopo quello di scoprire la realtà dei fatti. Nossignori: una cosa è la verità fattuale, un’altra è la verità processuale. L’articolata fisiologia del processo è come se sovrapponesse una realtà astratta, quella giuridica, alla realtà dei fatti. La vicenda nuda e cruda di una giovane uccisa in una casa di Perugia viene tradotta in una lingua, quella legale, che fa evaporare la realtà e la sublima in uno stato gassoso fatto di ricorsi, ricusazioni di testi, incidenti probatori e periti di parte, alterandone quindi gli aspetti di realtà.

Al termine del processo il fatto è stato talmente interpretato attraverso molte chiavi di significato giuridico che è snaturato, annullato in una caricatura. E appare evidente che se di realtà ce ne può essere solo una, di interpretazioni della realtà ce ne possono essere infinite. Detto in altri termini, il procedimento giuridico costruisce una sua realtà attraverso una serie di fasi così articolate e complesse che gli esiti di questo procedimento possono essere dei più diversi.
E’ un po’ come aprire una porta la quale si spalanca su altre due e queste due a loro volta si aprono su altre porte quasi all’infinito. E così un giudice potrà aprire alcune porte ed altre lasciarle chiuse e un altro giudice compiere scelte opposte.

Un secondo dato: preso atto che esiste una realtà giuridica che non necessariamente deve combaciare con la realtà dei fatti, va da sé che la tentazione dei giudici non sia tanto quella di appurare la verità, bensì semplicemente di mettere la parola fine alla vertenza.
Lo scopo del processo – così come affermava il filosofo del diritto Hans Kelsen (1881-1973) – non è di capire come si sono svolti i fatti e di mettere dietro le sbarre il colpevole, bensì è quello di risolvere il contraddittorio tra le parti – il pubblico ministero e l’imputato – anche se, come non ebbe vergogna di affermare sempre il nostro Kelsen, per ipotesi dietro le sbarre ci potrebbe finire l’innocente. Però se non siamo più vincolati alla verità dei fatti e la nostra stella polare è solo il desiderio di arrivare a risolvere la vertenza, va da sé che tale vertenza una volta si può risolvere con l’assoluzione e un’altra volta con un giudizio di condanna.

C’è poi un’altra ragione che sta dietro a queste sentenze a pendolo: la tecnicalità. Una volta i casi si risolvevano solo con pedinamenti, intercettazioni, interrogatori sfibranti, intuizioni brillanti ed elaborati ragionamenti deduttivi. Il detective un tempo annusava il presunto colpevole e si fidava e si affidava più al suo naso e al suo istinto che a vetrini e microscopi. Poi un giorno sono arrivati i RIS con le loro provette e test del DNA e d’un tratto tutta questa scienza forense invece di aiutare a semplificare le indagini le ha rese più macchinose.
Gli esperti della scientifica avrebbero dovuto far luce sui casi più difficili e invece dai loro laboratori vengono sempre più rilasciati referti dagli esiti oscuri perchè ambigui e incerti. E così il giudice, il quale ormai non riesce più a fare un passo senza uno stuolo di superesperti che lo assistono, è frastornato dalle mille perizie tra loro contraddittorie.
Le suole delle scarpe dell’imputato, secondo il guru mondiale del processo di vulcanizzazione della gomma, non possono sporcarsi di sangue, ma invece – secondo l’ematologo quasi premio Nobel – il sangue può essere lavato via con della semplice candeggina. Chi ha ragione?

La pura tecnicalità per paradosso è dunque nemica della verità. E forse la colpa di tutto questo è da addebitarsi a Cartesio (1596-1650) e poi a Kant (1724-1804). Questi due liberi battitori del pensiero scettico asserivano che il mondo non si può conoscere nella sua essenza, lo si può solo misurare e pesare o al massimo catalogare. Noi possiamo conoscere la realtà attraverso bilancini e metri (provette, Dna, etc.) o attraverso categorie mentali (istanze, termini di deposito, etc.) che alla fine ci restituiscono un simulacro della realtà, ma non certo la verità. Anzi a ben guardare la realtà non esiste proprio, esiste solo la rappresentazione scientifica di esso, cioè – per tornare al nostro caso – la rappresentazione giuridica di esso che essendo il mero prodotto dell’arbitrio dell’uomo, svincolato dal dato di realtà, cambia da uomo a uomo. Chiamasi relativismo. E’ proprio come diceva VItangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila di Pirandello: “Una realtà non ci fu data e non c'è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile”.

Il pensiero debole – cioè quel pensiero eunuco che si ritiene incapace di conoscere la verità – si è infiltrato anche nelle aule dei tribunali. Ma, a ben guardare, è un pensiero che non è poi così debole da non riuscire a far violenza alla verità.