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IL CASO

Prete non pedofilo: lezione della Chiesa allo Stato

Dopo una condanna pesantissima per pedofilia e sette anni scontati in carcere, per don Luciano Massaferro arriva la piena riabilitazione dalla giustizia ecclesiastica. Merito del coraggio mostrato dall'arcivescovo di Genova Bagnasco che ha fatto svolgere un processo rigoroso dal quale è uscito assolto. Parlano l'amico vescovo e il suo legale, Ronco, che sottolineano la fede con la quale ha affrontato una tragedia personale e gli errori compiuti dalla giustizia italiana: "Le cose non andarono come stabilì il giudice civile". 

Attualità 01_03_2018

La giustizia ecclesiastica lo ha pienamente riabilitato dall’accusa di pedofilia entrando così in opposizione con la sentenza con la quale la Cassazione stabiliva per don Luciano Massaferro di Alassio la condanna a 7 anni, scontati quasi tutti in carcere. Per i giornali la notizia è ghiotta. Infatti lo si presenta come né più né meno che un contrasto per mettere in cattiva luce il tribunale ecclesiastico, adombrando una sorta di “tenerezza” nei confronti del sacerdote che invece la giustizia penale ha ritenuto colpevole.

Di qua la giustizia civile che lo ha condannato, di là quella ecclesiastica che invece dopo un’attenta analisi della vicenda iniziata nel 2009, ha assolto “don Lu”, ribaltando completamente la decisione precedente che ora gli consentirà di poter tornare a fare il parroco e soprattutto a dire messa, salvo però impedirgli di insegnare religione nelle scuole perché per quell’incarico vale la giustizia ordinaria, che lo inibisce dalla cattedra.

C’è ora chi grida allo scandalo e i social fanno a gara per mettere in cattiva luce la regione ecclesiastica guidata dal cardinal arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco. Troppo facile titolare come è stato fatto da autorevoli quotidiani Il prete di Alassio pedofilo per la Cassazione, ma innocente per la Chiesa perché se il titolo nella sostanza è corretto, non lo è la percezione della notizia per come viene presentata. Infatti, a ben vedere, ci sarebbe da chiedersi quale contributo alla verità dei fatti possa arrivare da un tribunale canonico che ha esaminato la vicenda processuale con rigore e scientificità giuridica.

“Un contributo decisivo per la verità dei fatti”. L’avvocato Mauro Ronco, già professore ordinario di Diritto penale nell'Università di Padova, ne è convinto. Assieme al “principe del foro” Franco Coppi e ad altri, ha fatto parte del pool di difensori di questo sacerdote che secondo la Chiesa ha pagato ingiustamente 7 anni di detenzione per un reato non commesso, stando sempre alla giustizia ecclesiastica, che non va confusa con la giustizia di Dio, ma che non ha nulla da invidiare per serietà e autorevolezza a quella civile.

E alla Nuova BQ spiega quale sia stato il rigore procedurale con il quale il tribunale ecclesiastico ha deciso di assolverlo dalle accuse, sancendo di fatto un principio fondamentale: che la Chiesa è capace di assumersi il coraggio e la responsabilità della verità in un periodo in cui, circa il tema dei sacerdoti pedofili, spesso si tende a giocare in difesa per non essere accusati di connivenza.

“Anzitutto la genesi processuale – spiega Ronco -. Il processo ecclesiastico nasce su volontà della Congregazione per la dottrina della fede che il 7 gennaio 2013 diede pieno mandato a Bagnasco di procedere con processo amministrativo penale conferendogli potere di erogare anche pene perpetue”. Una decisione particolarmente grave e insolita, spiega infatti il legale, perché quando le prove sono evidenti o si è in presenza di sacerdoti rei confessi, la Cfd si “accontenta”, in soldoni, della giustizia civile.

Ma nel caso di don Luciano, anche a detta dei custodi della dottrina c’era qualche cosa da approfondire che i processi civili non avevano fatto. “Va letta dunque in questo senso – prosegue il giurista – la decisione di procedere anche a livello canonico istituendo un vero e proprio processo. L’Arcidiocesi di Genova ha così svolto un procedimento regolare in tutto e per tutto, rifacendo di fatto il processo all’imputato”.

Dopo diversi anni di udienze, perizie, testimonianze e incidenti probatori, la decisione, sintetizzata dalla sentenza di questi giorni: “Il sacerdote Luciano Massaferro deve essere completamente riabilitato in quanto non consta che egli abbia commesso i delitti a lui ascritti né nei confronti di XXX né nei confronti di altri minori pertanto debbono immediatamente cessare le pene cautelative imposte dal vescovo di Albenga”.

Una sentenza tranchant.

Che cosa significa tutto questo? “Nulla dal punto di vista civile anche perché don Luciano ha finito di scontare tutta la pena in prigione il 5 marzo 2016, ma questa sentenza certifica che la giustizia canonica ha operato nella massima severità imponendo, prima pene canoniche in via cautelativa, e poi procedendo a un processo nel corso del quale sono emersi elementi probatori tali da farlo assolvere”.

Ronco spiega infatti che il punto centrale era l’attendibilità della ragazzina che lo accusava. “Un’attendibilità che il procedimento canonico ha valutato non esserci. Non sta a me criticare le sentenze, ma è chiaro che la critica è in re ipsa: è evidente che se in questo momento c’è stata un’assoluzione vuol dire che le cose non erano così come si pensavano”.

Che cosa sarà ora di don Luciano? Ci sarà una revisione anche del processo civile? Su questo Ronco non si sbilancia: “Le revisioni si fanno quando ci sono nuove prove. In questo caso siamo in presenza di una rivalutazione di una prova giudicata sufficiente allora, ma non lo era”.

Resta però un fatto: “Il coraggio che ha avuto il vescovo di Genova nell’andare a fondo della questione che per don Luciano è stata una vera e propria tragedia personale. Una tragedia che ha vissuto con una grande fede. Io ho seguito il sacerdote e ho visto quanto confidasse con fede straordinaria in Gesù Cristo. Alla fine la verità è uscita fuori”.

La vicenda di don Luciano tenne banco negli anni scorsi sulle cronache locali dei giornali liguri. E la notizia della riabilitazione canonica non può non far che piacere al comitato nutrito di fedeli che negli anni scorsi si era costituito per difendere il sacerdote. Tra questi c’è anche un confratello di don Luciano che nel frattempo è diventato vescovo.

Si tratta del vescovo di Ventimilia-Sanremo Antonio Suetta, che ha seguito la vicenda processuale dell’amico e non ha mai dubitato della innocenza. E sono proprio le parole di un successore degli apostoli a fare luce su quel caso.

“Nella condanna di primo grado – ha spiegato alla Nuova BQ Suetta – si afferma che in alcune circostanze la minore si è contraddetta, ma il giudice la scusò perché i minori si possono contraddire. Don Luciano è stato condannato senza un riscontro oggettivo, quelle che noi chiamiamo banalmente prove”. Si tratta di un’ulteriore presa di responsabilità episcopale a difesa di un uomo di Dio in tempi in cui la gogna mediatica suggerirebbe un escamotage più politicamente corretto e una sudditanza imbarazzante.

“Per quanto scarsa sia la mia cultura giuridica so che quello che non è nell’evidenza delle prove non esiste, di conseguenza trovo quanto meno curioso e anomalo il fatto che di fronte a due versioni contrapposte, una che accusa e l’altro che rimanda al mittente ogni accusa, il giudice possa condannare una persona dicendo: uno lo ritengo credibile e l’altro no senza dire se ci sono prove a supporto. Questa è l’anomalia della sentenza”.

Suetta ha ricordato che anche il processo di Appello fu insufficiente dal punto di vista dell’approfondimento: “Non è entrato nel merito e ha visto la sostituzione del giudice relatore alla vigilia del processo. Inoltre, molte istanze della difesa non sono state accolte. Io non mi permetto di sindacare quello che non è di mia competenza, ma a fronte di questi documenti e di questo iter processuale mi pongo alcune domande. E si tratta di domande che, a fronte della meticolosità con cui è stato fatto il processo canonico si fanno ora più consistenti”.