Prende forma il disegno di Trump del nuovo Medio Oriente
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La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu con cui si accetta il piano di pace di Trump per Gaza, la successiva visita del principe saudita Mohammed bin Salman a Washington: due prime tappe per il nuovo Medio Oriente.
Due notizie negli ultimi giorni sono state particolarmente rilevanti per i destini del Medio Oriente e per i nuovi rapporti di forza che in esso si stanno profilando: l'approvazione all'Onu della risoluzione proposta dagli Stati Uniti per il percorso di pace a Gaza (con l'astensione, quindi senza veto, di Russia e Cina), e la visita del principe ereditario e leader saudita Mohammed bin Salman a Washington.
La somma tra i due eventi suggerisce che la strategia dell'amministrazione Trump rispetto all'annoso dossier mediorientale arabo-israeliano continui, in modo non appariscente ma continuo, a dipanarsi, e abbia fatto due importanti passi avanti.
Sul primo punto, quando a settembre era stato finalmente raggiunto un cessate il fuoco a Gaza con la mediazione decisiva di Trump, dopo quasi due anni di guerra tra Israele e Hamas originata dall'eccidio del 7 ottobre 2023, da parte di molti osservatori non simpatetici con il presidente statunitense era stato espresso grande scetticismo rispetto alla possibilità che quella tregua diventasse un vero processo di pace. In particolare, si sottolineava come fosse molto difficile vincolare il governo di Gerusalemme, la tenuta del quale dipende anche dalle componenti di destra più oltranzista della sua coalizione, a un effettivo ritiro militare dalla Striscia, e ad appoggiare un piano di pace che prevedesse come sbocco la creazione di uno stato palestinese. E, dall'altro lato, si rilevava come il disarmo di Hamas e la sua esclusione dai futuri assetti di potere a Gaza apparisse un'impresa praticamente quasi impossibile, soprattutto perché non si scorgevano all'orizzonte nel mondo arabo soggetti politici dotati della forza, della autorità e della determinazione per portare a termine il compito.
Ora, l'approvazione della proposta di Trump all'Onu non rappresenta certo la definitiva smentita a quei dubbi, né la soluzione definitiva della questione. Ma è molto significativo che si sia verificata una convergenza quasi totale in Consiglio di Sicurezza (e Mosca e Pechino non si siano messe di traverso) sull'istituzione di una forza militare di stabilizzazione multinazionale che sovrintenda alla smilitarizzazione della Striscia collaborando con l'esercito israeliano, sull'obiettivo di una governance palestinese "tecnica" e sulla istituzione del Board internazionale diretto dallo stesso Trump che dovrà vigilare sul processo. Così come è significativo che soltanto Hamas, nel mondo arabo-islamico, si sia espressa contro la risoluzione, e che l'Autorità palestinese la abbia invece appoggiata.
Ora, tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, e certamente non sarà facile individuare quale paese si dovrà assumere la responsabilità di confrontarsi concretamente con le milizie islamiste. Ma la legittimazione internazionale crescente rende sempre più difficile tornare indietro su questa strada, e il coinvolgimento militare dei paesi arabi sul campo è cruciale per continuare a tenere Hamas e i suoi mandanti di Teheran con le spalle al muro. Le tattiche per cercare di mettere i bastoni tra le ruote al processo agli integralisti non mancano, ma man mano che la procedura si consolida appaiono sempre più di corto respiro.
Soprattutto, nella risoluzione si fa riferimento allo Stato palestinese in termini piuttosto vaghi, solo come ad una prospettiva che si potrà verificare quando siano soddisfatte tutte le altre condizioni: clausola che assicura che Israele non si metta di traverso, nonostante le frange intransigenti presenti nell'esecutivo di Bibi Nethanyahu. E tra le righe si intuisce quello che ogni osservatore realista ha già da tempo compreso: lo Stato palestinese, se mai nascerà, avrà una sovranità formale, ma di fatto sarà un protettorato dei paesi arabi sunniti, a cominciare da Egitto e Arabia Saudita.
Questo ci porta alla seconda notizia di questi giorni, ossia alla visita di bin Salman a Trump. Che i rapporti di amicizia e collaborazione tra i due fossero già solidi lo si sapeva da tempo, e che Riad costituisca un punto di riferimento irrinunciabile per la strategia mediorientale trumpiana è già emerso con evidenza negli ultimi anni e mesi. Ma l'incontro di Washington – che il tycoon ha voluto fosse il più possibile solenne – ha segnato ulteriori, importanti passi avanti in tal senso. L'annuncio di forti investimenti sauditi negli Stati Uniti, l'accordo per la collaborazione tra i due paesi nel campo della ricerca per l'energia nucleare, e soprattutto la vendita da parte americana dei caccia F 35 all'aviazione del paese arabo rafforzano la sensazione che l'intenzione di Trump sia quella di investire Riad di un vero e proprio compito di rappresentanza degli interessi statunitensi nell'area, anche dal punto di vista militare.
Il disegno dell'inquilino della Casa Bianca, evidentemente, è non soltanto quello ben noto del completamento degli Accordi di Abramo attraverso l'adesione decisiva dei sauditi, ma anche quello della costruzione di una sorta di "Nato mediorientale", che, una volta chiuso il cerchio degli Accordi, dovrebbe vedere sostanzialmente una partnership tra Gerusalemme, Riad, Il Cairo, con l'appoggio economico delle petromonarchie del Golfo, in un sistema di sicurezza regionale in grado di esercitare un ruolo di sicuro baluardo contro ogni futura vellità di destabilizzazione integralista fomentata dall'Iran degli ayatollah (sempre se il loro regime sopravviverà al "nuovo corso).
In tale contesto anche l'annosa disputa sulla soluzione "due popoli due Stati" per la questione israelo-palestinese perde di importanza. Il disarmo di Hamas e il disinnesco di future aggressioni allo Stato ebraico dovrebbero avvenire parallelamente alla crescente influenza saudita nei territori, e al consolidarsi del succitato sistema di sicurezza regionale.
A Washington bin Salman ha puntualizzato che il suo paese intende aderire agli Accordi, ma solo se il processo di pace per Gaza sfocerà nella creazione dello Stato palestinese. Ma è chiaro che, al di là dei termini e delle rassicurazioni obbligate che egli deve fornire all'opinione pubblica araba, l'erede al trono saudita pensa esattamente alla soluzione che indicavamo sopra come la più realisticamente proponibile: un sostanziale protettorato, grazie al quale Riad potrà non soltanto vedere sancita la sua egemonia sul mondo arabo, ma affacciarsi, economicamente e politicamente, al grande scenario del Mediterraneo.
Il fatto che la Turchia di Erdogan abbia reso nota con insistenza la sua disponibilità a fornire truppe per la forza multinazionale di stabilizzazione a Gaza – soluzione prevedibilmente temuta e rifiutata dagli israeliani – è uno dei segni che quello è l'approdo immaginato sia dagli americani che dai sauditi, e che si tratti di un esito assai temuto, da un punto di vista geopolitico, da Ankara, recentemente tornata a occupare una posizione strategicamente forte nel "mare nostrum". Tanto temuto da spingere Erdogan a cercare di essere presente il più possibile nel processo di pace, per frenarlo e limitarlo.

