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SPRECHI

Partiti e Province, rimedi peggiori dei mali

Le riforme promesse da Renzi e quelle varate dal governo sono provvedimenti confusionari e costosi. Alle Province si sovrappongono non ben definite Città Metropolitane, i partiti dovrebbero perdere il finanziamento, ma costano ancora cari.

Politica 12_01_2014
Province

Il “nuovo che avanza”, come l’ha definito il Direttore di questo giornale, provvede ogni giorno a dispensare idee di riforma. L’ultima, quella sul lavoro, chiamata “job act”  - annunciata di qui a 8 mesi - e liquidata subito dal Ministro Giovanni: “servono molti soldi”, ha detto.

Il “dispensario” di Renzi si è già manifestato con le “riforme” varate subito dopo la sua investitura a segretario del Partito Democratico: sul finanziamento pubblico e sulle province. La prima “riforma”  ha riguardato l’elargizione di denaro pubblico che in vent’anni di elezioni ha prodotto nelle casse dei partiti 2,7 miliardi, contro 700 milioni di spese elettorali dichiarate. Solo per le elezioni per il rinnovo del Parlamento italiano, senza contare quelle europee, quelle regionali e il fiume di denaro per le testate giornalistiche. Ebbene, finalmente, si è detto, il finanziamento pubblico è stato abolito. Nulla di più falso. Perché la “riforma” entrerà in vigore nel 2017 – i partiti, fino a quella data continueranno a spartirsi decine e decine di milioni di euro – quando, in base ad un meccanismo ancora ignoto, i cittadini saranno chiamati, attraverso la dichiarazione dei redditi, a scegliere come destinare il loro contributo alla politica. Quindi, nessuna riforma effettiva, che avrebbe dovuto partire, peraltro, da una questione molto semplice, per mettere le cose in chiaro: l’attuazione del principio contenuto nell’art. 49 della Costituzione – mai attuato – e l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare su come hanno funzionato i partiti negli ultimi vent’anni, provvedendo a “mantenere” 1 milione e 300 mila persone che vivono direttamente o indirettamente di politica, con un costo complessivo per la collettività superiore ai 6,5 miliardi. Una politica che mantiene in piedi oltre 7mila enti strumentali, consorzi, aziende, fondazioni, società, agenzie, autorità, che occupano oltre 24.000 componenti nei vari Consigli di Amministrazione, tutti o quasi tutti “nominati” dalle segreterie dei partiti, con la connivenza e l’interesse di una buona parte della cosiddetta società civile. Questa sarebbe stata una “riforma”.

L’altra misura finora adottata – ora al vaglio del Senato - ha riguardato le Province. Un’altra barzelletta. Le Province che rimarranno, coesisteranno con le 20 Città Metropolitane, delle quali non si conoscono né i criteri in basi ai quali sono state costituite né le loro funzioni. I servizi finora di competenza delle Province, saranno svolti dalle Città Metropolitane, dalle 20 Regioni, dalle 370 Unioni di Comuni e da migliaia di Comuni, ma soprattutto dalle Agenzie, perché le Regioni, che non sono enti di amministrazione, ne apriranno delle altre, aumentando il numero già censito dal Ministero dello Sviluppo Economico: attualmente sono 3.127 e nel 2012 sono costate oltre 7 miliardi 400 milioni di euro! Altri apparati, altri costi, altra burocrazia, alla faccia della spending rewieu e della semplificazione. I servizi da garantire, del resto, non sono di poco conto: ad esempio, l’agibilità degli edifici scolastici – quelli superiori, erano di competenza delle province – privi di sicurezza nel numero di 4 su 10, in base al rapporto diffuso in questi giorni da Lega Ambiente. Si stima, inoltre, che occorreranno circa due anni dall’entrata in vigore della legge – ora in discussione al Senato - per comprendere il destino delle funzioni, del personale, delle risorse e del patrimonio delle Province che rimarranno.

Il “nuovo” ha già provveduto a generare confusione, ammantata anche dall’illusione che con un colpo di bacchetta magica si possano risolvere problemi strutturali che hanno inciso profondamente sulle fondamenta della democrazia italiana. Stessa cosa è presumibile possa accadere sulla questione della legge elettorale – che si vuole subito, purchessia – e sulla voragine della disoccupazione, che ha raggiunto livelli superiori a quelli del 1977. Dalla confusione, dall’illusione e dell’approssimazione, non può nascere mai nulla di buono.