"Operazione hasbara", così Israele confonde sulla fame a Gaza
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L'uso della fame come arma di guerra è una realtà innegabile, ma il governo israeliano pianifica la disinformazione per diffondere almeno dubbi sufficienti per paralizzare l'indignazione.

Ritoccare una foto o correggere decine di immagini che circolano in rete è molto facile. Modificare migliaia di fotografie o filmati è sicuramente più complicato. A volte impossibile. È così che Israele, nel corso di questo scontro con Hamas, che dura ormai da ventidue mesi, ha creato una sottile, letale e subdola “macchina da guerra”, tra le più pericolose, ma senza spargimento di sangue. Parliamo dell’ “Operazione hasbara”, il cui significato è “spiegare”, ma che nelle intenzioni degli ideatori ha un concetto ben diverso: cancellare, smentire e condizionare l’opinione pubblica. Un metodo che possiamo definire orwelliano: non limitarsi a confutare e discutere i fatti, bensì, negare la realtà e ciò che è sotto gli occhi di tutti.
Quante volte abbiamo sentito dire dal primo ministro Benjamin Netanyahu che gli abitanti della Striscia di Gaza non soffrono la fame? E quante volte abbiamo ascoltato le varie dichiarazioni dei ministri ultraortodossi e ultranazionalisti, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, che gli aiuti umanitari, che dovrebbero entrare a Gaza per sfamare gli oltre due milioni di abitanti, vanno bloccati? Tante, tantissime volte.
Il sistema, ben congegnato, entra in funzione con la micidiale “arma della disinformazione”. Con la complicità di funzionari governativi, che si destreggiano in perfetto inglese, vengono diffuse le notizie ai mezzi di comunicazione occidentali. Un esempio? Quando si parla della presunta carestia a Gaza, ebbene si tratta di un’invenzione di Hamas; secondo questo meccanismo, il gruppo terroristico è riuscito a raggirare gli operatori sanitari, Medici senza frontiere e le altre agenzie umanitarie, mentre gli abitanti di Gaza sono semplicemente in difficoltà a causa dei bombardamenti.
Un altro esempio? Recentemente sul quotidiano statunitense New York Times è stata pubblicata una foto che riprendeva un ragazzo magrissimo, scheletrico, di nome Mohammad Zakariya Ayyoub al-Matouq. Fonti del Mossad hanno bisbigliato ai media amici che non si trattava dell’immagine di un giovane che stava per morire di fame, bensì di uno affetto da una grave patologia. All’indomani il quotidiano “correggeva” l’articolo, spiegando che quell’immagine testimoniava che ai ragazzi malati, oltre a non essere assicurate le cure, non viene garantito nemmeno il cibo per potersi nutrire.
È una tattica già utilizzata nel passato. Se le pubblicazioni non difendono Israele, la reazione non si fa attendere e partono raffiche di telefonate e messaggi alle redazioni giornalistiche, in modo da scoraggiare l’autore. Ma non solo, sui social, l’estensore dell’articolo viene messo alla gogna. Tattiche studiate per far desistere quanti intendono raccontare la realtà. Ma perché Israele non permette ai giornalisti stranieri di entrare a Gaza e verificare quello che realmente accade? E quei pochi che entrano perché devono stare nel perimetro prefissato e nei parametri “raccomandati”?
L’obiettivo del governo israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu, è chiaro: non è persuadere l’opinione pubblica internazionale che a Gaza non c’è la fame, ma diffondere sufficienti dubbi da paralizzare l'indignazione. Se i fatti possono essere confusi, la pressione su Israele diminuisce.
Quelle foto che immortalano centinaia di persone, con una pentola tra le mani, in cerca di un mestolo di minestra o di farina, hanno sfondato quel muro di omertà che è stato innalzato da una falsa propaganda. Quelle immagini non possono essere modificate con nessuna tecnica digitale. Sono immagini che mostrano, invece, come il governo israeliano stia usando l’arma della fame per sopprimere gli abitanti della Striscia di Gaza.
E la storia non potrà mai cancellare questa carestia. Anzi, la situazione rischia di peggiorare a causa della nuova offensiva voluta, recentemente, dal primo ministro.
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