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la querelle

Non solo Vannacci: tutte le porte girevoli della sinistra

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Non c'è incompatibilità per il generale eletto a Strasburgo. Chi vorrebbe demilitarizzarlo pensi a magistrati, giornalisti e professori universitari candidati anche loro, ma (quasi sempre) dalla parte "giusta".

Politica 03_09_2024
IMAGOECONOMICA VIA ESERCITO

Quando nel nostro Paese ci si addentra in questioni riguardanti conflitti di interessi e incompatibilità il terreno è sempre molto scivoloso e l’immagine biblica del “chi è senza peccato scagli la prima pietra” si rivela sempre calzante.

L’ultima querelle in ordine di tempo riguarda l’insofferenza della sinistra nei riguardi del generale Roberto Vannacci, eletto parlamentare europeo. Stando alle leggi italiane non ci sono incompatibilità tra il suo ruolo nell’Esercito e quello al Parlamento di Strasburgo e dunque il diretto interessato ha fatto sapere di non voler scegliere tra Esercito e nuovo incarico istituzionale. Il generale ha inviato nei giorni scorsi al Corriere della Sera una lettera volta a chiarire la sua posizione. «Non mi risulta», scrive Vannacci, «che in passato siano state richieste le dimissioni di altri militari o magistrati che hanno espresso pubblicamente le loro idee o che hanno partecipato attivamente alla vita politica del Paese».
Forse alcune posizioni assunte dal generale in campagna elettorale potrebbero aver suscitato imbarazzo in ambienti dell’Esercito, ma Vannacci ha più volte chiarito di parlare a titolo personale e in ogni caso la legge non lo obbliga a fare scelte nette tra i due ruoli attualmente ricoperti.

Ben più delicati, insidiosi e fastidiosi appaiono i casi di magistrati, giornalisti e professori universitari che dopo aver svolto attività che prevedevano nella loro stessa essenza la terzietà, l’imparzialità, la difesa dell’interesse generale derivante dal pluralismo dei punti di vista, si sono schierati politicamente, sono apparsi divisivi, si sono candidati e, quando hanno terminato la loro esperienza nelle istituzioni, sono tornati a fare il lavoro che facevano prima. Con quale credibilità verrebbe da chiedersi?

Partiamo dai magistrati che hanno deciso di scendere in campo, quasi tutti a sinistra e che, una volta cessato il loro incarico, sono tornati a indossare con disinvoltura la toga, pronunciando sentenze teoricamente ispirate a imparziale applicazione della legge ma in realtà viziate da pregiudizio ideologico. D’altronde sarebbe come se un arbitro decidesse di gareggiare con la maglia di una squadra sportiva e, una volta terminata quell’esperienza, decidesse di tornare a fare l’arbitro. Chi si fiderebbe più di lui?

Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris, Anna Finocchiaro, Michele Emiliano, Cosimo Ferri, Antonio Ingroia sono solo alcuni dei nomi di magistrati che hanno deciso di fare politica, svelando quindi il loro orientamento culturale e ideologico e difendendo interessi particolari. Anche la legislatura in corso è caratterizzata dalla presenza di magistrati in pensione o che comunque hanno terminato la loro carriera giudiziaria, durante la quale hanno condotto inchieste assai eclatanti. Ci riferiamo a Carlo Nordio (Fratelli d’Italia), già Procuratore aggiunto a Venezia e attuale Ministro della Giustizia, a Simonetta Matone (Lega), ex sostituto Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma, e, nelle fila del Movimento 5 Stelle, a Federico Cafiero De Raho, Procuratore nazionale antimafia dal 2017 al febbraio 2022, e a Roberto Scarpinato, già Procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo.

Dunque sono lontani gli anni Novanta e Duemila, durante i quali le toghe si lasciavano lusingare dai leader politici e accettavano proposte di candidatura, salvo poi tornare sui propri passi in caso di mancata elezione. Tuttavia, il sistema delle cosiddette “porte girevoli”, che finiva per screditare ulteriormente la figura del magistrato, alimentando la narrazione di toghe prevalentemente politicizzate, è stato fortemente ridimensionato dalla riforma Cartabia.
Con la legge n. 71 del giugno 2022, infatti, le Camere hanno approvato la riforma dell’ordinamento giudiziario, concludendo un iter avviato a settembre 2020 su proposta dell’allora Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, poi proseguito e portato a termine, con modificazioni rispetto al testo originario, dalla Guardasigilli del Governo Draghi Marta Cartabia, anche sulla base delle proposte della c.d. Commissione Luciani. La riforma in oggetto ha preso in esame anche la partecipazione dei magistrati all’attività politica, apportando una serie di revisioni in senso restrittivo.

La scarna normativa precedente, che risaliva al 1957 (art. 8 del d.p.r. n. 361/1957 in materia di elezioni della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica), si limitava a disporre l’ineleggibilità dei magistrati in circoscrizioni corrispondenti, in tutto o in parte, alla giurisdizione degli uffici nei quali esercitavano le proprie funzioni o lo avevano fatto nei sei mesi precedenti all’accettazione della candidatura, nonché il divieto, in caso di insuccesso in sede di consultazioni, di essere assegnati per cinque anni a un ufficio avente competenza sulla circoscrizione di riferimento.

Le elezioni politiche del 2022 hanno registrato per la prima volta l’applicazione delle previsioni della riforma Bonafede-Cartabia, in base alla quale tutti i magistrati che hanno ricoperto incarichi elettivi non possono più tornare a indossare la toga: vengono collocati fuori ruolo presso il ministero di appartenenza o le sezioni consultive del Consiglio di Stato, le sezioni di controllo della Corte dei Conti e il Massimario della Cassazione. Chi non è stato eletto non può per 3 anni lavorare nella regione dove si è candidato, nè fare il capo di un ufficio giudiziario, il pm, il gip e il gup. E non è più possibile continuare a fare il magistrato mentre si ricoprono incarichi elettivi e governativi: obbligatoria l'aspettativa, senza assegni in caso di incarichi locali.
Dunque la situazione può dirsi migliorata, anche se permangono anomalie nel rapporto tra giustizia e politica, sempre nella direzione di una politicizzazione di percorsi di carriera e di applicazione dei principi di diritto.

E che dire di quei giornalisti che si candidano, non vengono eletti e tornano nelle rispettive redazioni, come se nulla fosse? In campagna elettorale hanno fatto propaganda notte e giorno per il partito di riferimento, poi con la coda tra le gambe in caso di insuccesso tornano a ergersi a paladini dell’imparziale narrazione dei fatti di interesse pubblico. Chi si fida più di loro? Solo i militanti del partito nel quale si erano candidati.

Stessa cosa si può dire per alcuni autorevoli professori universitari che usano il marchio accademico per ricoprire ruoli politici ma poi, quando la pacchia per loro è finita e nel frattempo si sono esposti con pesanti endorsement in favore della destra o della sinistra, risalgono in cattedra per parlare di scienza e ricerca.

Sarebbe ora che si facesse un po di chiarezza su queste cose e si introducessero regole ferree sulle incompatibilità e sul divieto di porte girevoli in professioni nelle quali l’obiettività di giudizio e il servizio al bene comune sono condizioni essenziali. Ci sono dei vincoli costituzionali in materia di diritto alla conservazione del posto di lavoro, ma la credibilità delle istituzioni non può diventare un optional rispetto ai diritti di chi dichiara di volerle servire.



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